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L’Isis non è in lockdown

La rivendicazione dei recenti attentati in Austria e Afghanistan ci mette in guardia sullo stato delle cose: l’Isis non è in lockdown. Ha operato per mesi sottotraccia ed è tornato all’attenzione dei media in questi giorni di forti tensioni. Non è un ritorno vero e proprio perché non se ne è mai andato eppure le domande ritornano ciclicamente. Come è nato? Come si è evoluto in questi anni? E da dove derivano le risorse economiche e finanziarie del Califfato?

Semplificando possiamo individuare tre diverse fasi del terrorismo di matrice islamica. Una fase che termina nel 2001, una seconda fase che va dal 2001 al 2014 e una terza fase, quella più recente, e che ha visto l’emersione dell’Isis, dal 2014 ai giorni nostri.

Nella prima fase nascono diverse organizzazioni terroristiche di grandissima importanza. Nel 1948 sorge la questione palestinese: il moderno  Stato d’Israele considera propri i territori che invece gli arabi palestinesi rivendicano da secoli. Ed è proprio questo a dare vita al gruppo dei Fratelli Musulmani destinato a combattere contro la presenza ebraica in Palestina.  In Libano invece nasce Hezbollah per sostenere la lotta islamica contro lo Stato di Israele e a Gaza Hamas, attivo sin negli anni ’70 grazie ai finanziamenti di Arabia Saudita e Siria.

In Afghanistan nasce l’organizzazione terroristica Al-Quaeda.

I primi estremisti di matrice islamica iniziano a radunarsi in Afghanistan alla fine degli anni ‘70 per combattere contro l’Unione Sovietica. Nel 1989 il ritiro della Russia dall’Afghanistan viene visto come una grande vittoria da parte degli estremisti islamici.  Perciò i combattenti, venuti da varie parti del Paese, decidono di non abbandonare il campo ma di rimanere in Afghanistan per formare qualcosa di stabile. L’idea è quella di ideare una vera e propria guerra contro l’occidente cristiano, collocando un vertice logistico in Afghanistan: si creano campi di addestramento, di combattimento, di reclutamento. Questa base è ciò che nel corso del tempo verrà definita Al Qaeda, il termine infatti in lingua araba significa “base”. Vengono preparati alcuni tra i principali attentati, tra cui quello delle Torri Gemelle del 2001.

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Photo by Craig Allen/Getty Images

Il fenomeno ha una struttura verticistica e piramidale. Quando i mujaheddin lasciano il Paese restano in collegamento con la base afghana e formano delle cellule locali all’interno dei paesi occidentali. Tra il vertice e i gruppi locali il rapporto è molto forte: è il vertice a stabilire le azioni da svolgere. In questa fase le cellule nei paesi occidentali non compiono veri e propri crimini di terrorismo ma vendita di droga, documenti falsi, assistenza a terroristi in transito, chiamate infatti “cellule dormienti”. In questa fase storica i terroristi sono dei soggetti che hanno un livello di istruzione medio-alta, c’è una fortissima predisposizione al raggiungimento di scopi di natura religiosa ed è questa che effettivamente governa la mente dei terroristi che sacrificano la propria vita per un ideale.

Nella seconda fase tra il 2001 e il 2014 lo scenario cambia radicalmente. Inizia una lunga azione bellica da parte degli USA, la cosiddetta “Enduring freedom”. Gli effetti di questa operazione sono di sfaldare le strutture jihadiste in Afghanistan, perché i bombardamenti provocano la distruzione dei campi di addestramento, inibiscono le azioni di addestramento e di fatto bloccano tutta l’attività logistica collocata in quel contesto territoriale. Il vertice dell’organizzazione dal 2001 non riesce più a esercitare il controllo di prima perché non ha più una base territoriale. Gli attentati allora vengono realizzati in maniera autonoma dai gruppi territoriali locali, dalle cellule. Il terrorismo semplicemente cambia faccia e diventa più forte. I terroristi non sono più soggetti istruiti e convinti delle loro idee come nella prima fase, ma sono soggetti reclutati da parte delle organizzazioni criminali direttamente nelle periferie delle metropoli europee, spesso immigrati di seconda o di terza generazione. Il vero motivo che spinge l’adesione a queste forme di estremismo è legato allo shock culturale che i soggetti provano e alla necessità di trovare un gruppo di riferimento. Si trovano in un limbo, la cultura di origine non gli appartiene più ma non sono ancora inseriti nella cultura del paese dove vivono.

Nell’ultima fase successiva al 2014, si afferma l’Isis. Abu Musab al-Zarqawi è stato uno dei rivali di Bin Laden all’interno del movimento dei mujaheddin, e poi anche di Al Qaeda e decise di fondare un suo proprio gruppo con obiettivi diversi. Lo scopo dell’Isis è  infatti la creazione di un Califfato nei territori conquistati, e attualmente controlla una parte di Iraq e Siria, dove i jihadisti vogliono imporre la Sharia, ovvero la legge islamica. Il vertice dell’organizzazione torna ad essere forte ma non vi è un nuovo controllo sulle cellule terroristiche, perché l’Isis è totalmente concentrato sull’ampliamento del territorio e su azioni belliche.

Le cellule si auto-organizzano, si auto-addestrano, usano la rete come canale di radicalizzazione, è la fase — che dura tutt’ora — dei foreign fighters. Cambiano anche i luoghi mirati per gli attentati, non ci sono più obiettivi simbolici come nella prima fase: ambasciate, la grande torre commerciale; adesso un attentato può avvenire ovunque, in un bar, un teatro, per la strada. La preparazione dell’attentato alle Torri Gemelle è durata 4 anni, ora un attentato viene imbastito in maniera estemporanea e in tempo brevissimo. Per questo il monitoraggio e il controllo diventa difficile, non c’è più una struttura di riferimento stabile, i soggetti possono agire in maniera veloce, indisturbati e ovunque.

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Le ragioni della guerra contro i paesi occidentali, è stata fomentata anche dagli eccessivi interessi dell’occidente sui giacimenti di petrolio. L’Isis si finanzia attraverso il contrabbando di droga, riciclaggio di denaro sporco ed altre attività criminose ma anche con un sistema molto prolifico di tassazione e di multe comminate dalla polizia religiosa nei confronti di chi trasgredisce la “morale pubblica”. L‘isis è l’organizzazione terroristica più ricca di sempre. Presenta i connotati di una vera e propria multinazionale, oltre che di uno Stato: ha conquistato diversi giacimenti petroliferi, si è impossessato di banche e di aziende, accumulando in pochissimo tempo un patrimonio stimato in almeno 3 miliardi di dollari.

Il paese da cui proverrebbero i maggiori finanziamenti all’ISIS è il Kuwait, seguito dal Qatar e dall’Arabia Saudita, ma non è chiaro a quanto ammontino queste donazioni. Secondo le stime, il Califfato trae un guadagno giornaliero di circa un milione di dollari, sfruttando anche i giacimenti petroliferi di tutto il nord Iraq e della Siria. La vendita dell'”oro nero” avviene attraverso dei contrabbandieri, locali o stranieri, che acquistano il petrolio a circa 30 dollari al barile e lo rivendono a prezzi concorrenziali, principalmente, sui mercati turchi e iraniani. I traffici illegali di reperti archeologici rappresentano un’altra delle principali voci di entrata nei bilanci dello Stato Islamico. 

Per bloccare l’avanzata del terrorismo è quindi necessario fermare  ogni rifornimento di soldi e di armi ai terroristi, anche da parte dei paesi occidentali che non mancano all’appello.

La propaganda politica dagli slogan “tutti gli immigrati che arrivano in Italia sono criminali o terroristi”, oltre che moralmente becera e diffamatoria, è una generalizzazione. Generalizzare significa isolare; più gli organi statali e politici non si prendono cura di chi approda al di qua del Mediterraneo, mettendo barriere e distanze, più sarà promossa l’affiliazione alle organizzazioni criminali islamiche. La solitudine patteggia con i compromessi più terribili, in cambio di appartenenza e obiettivi condivisi. È quindi indispensabile non solo migliorare la sicurezza e fermare il rifornimento di soldi e di armi ma anche favorire l’integrazione attraverso la cultura e l’istruzione.

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