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Che cosa ci fa la Russia in Siria?

[Photo credits:RIA Novosti/AP]

Le accuse nei confronti dei bombardamenti russi contro le popolazioni sono ormai ricorrenti. Non ultimo l’azzardato tentativo di colpire i ribelli distruggendo uno degli ultimi ospedali presenti nella città di Aleppo e, in generale, nel nord della Siria, che ha provocato una forte reazione di denuncia. Tralasciando le mille violazioni del diritto internazionale in tempo di guerra che comporta la presa di mira deliberata di un obbiettivo civile protetto come un ospedale, è importante notare che la Russia (ammesso che sia stata effettivamente lei) ha voluto colpire i “ribelli”, le truppe irregolari che si oppongono ad al-Assad, non i miliziani dell’ISIS. La Russia, infatti, mette così in mostra le sottili linee sulle quali si sta giocando la sua strategia regionale. Una strategia nella quale la Siria non è che un tassello di una cornice più ampia.

La destabilizzazione della Siria, che segue quella dell’Iraq, combinata con la nascita e il rafforzarsi dello Stato Islamico (cosiddetto) ha ridisegnato gli equilibri di potere della regione. Ormai sono tre i poli che se la contendono, ma tra di essi, salvo interventi esterni, è un gioco a somma zero, ovvero l’egemonia di uno avverrà a discapito di quella degli altri due.

Già da prima dello sconvolgimento siriano, la Turchia aveva adottato due strategie: da un lato tentava di imporsi come potenza culturale, producendo film e serie televisive; dall’altro, politicamente stava alternativamente un po’ in Europa, un po’ in Asia. Finito il tempo delle richieste di ingresso nell’Unione Europea, la Turchia chiese alla Russia di farsi sponsor del suo ingresso nel concerto eurasiatico, in particolare di mettere una buona parola con la Cina. Ma la destabilizzazione del confine meridionale ha spostato la sua attenzione sulla situazione: in particolare, sulla ricerca di una soluzione alla questione curda turca, rinforzata dall’autonomia dei Curdi siriani.

Il secondo polo è l’Arabia Saudita, da decenni forza egemone dell’area, riceve il sostegno degli Stati Uniti in cambio di petrolio e basi militari di controllo. L’Arabia Saudita, monarchia assoluta sunnita, custode delle città sante dell’Islam, nonché membro più influente dell’OPEC, è sicuramente il paese arabo più influente e, in apparenza, potente del Golfo Persico.

Il terzo vertice di questo strano triangolo è invece l’Iran. Paese in precedenza escluso dalla scena politica internazionale a causa dell’embargo energetico e commerciale, voluto e imposto dagli Stati Uniti, l’Iran esce ora dall’isolamento con una rinnovata forza negoziale, non solo in virtù delle proprie riserve petrolifere, ma anche della situazione politica e religiosa favorevole che si è venuta a creare. Da quando è diventato una Repubblica Confessionale, l’Iran si è posto come il faro politico e religioso delle comunità sciite del mondo musulmano. Per questo motivo tra i suoi alleati si possono annoverare la Siria degli al-Assad, alauiti quindi sciiti, Hezbollah, il partito sciita libanese, che ha un potente e violento braccio armato, e, in ultima analisi, l’Iraq. Quest’ultimo, dopo la fine del regime di Saddam Hussein, si è visto mettere a capo del governo gli esponenti della classe sciita, in maggioranza nel paese (una mossa astuta da parte degli Stati Uniti, se si considera la rivalità che da tempo separa americani e sciiti in generale). L’Iran si è dunque trovato a confinare con una realtà geograficamente continua che, almeno nominalmente, favoriva il potere politico e governativo sciita.

Il paese che più di tutti è riuscito a giostrare le proprie relazioni bilaterali con tutti e tre questi poli, in apparente contraddizione tra loro, è stata la Russia. In seguito alla guerra civile in Siria e alla conseguente ascesa dello Stato Islamico (cosiddetto), queste relazioni sono entrate in una nuova dialettica. La conseguenza diretta di ciò è la notevole complicazione degli interessi, nonché l’allontanarsi di una risoluzione rapida del conflitto.

La presenza della Russia in Siria risale ai tempi dell’URSS. In realtà, le mire sul Mediterraneo dell’impero russo non sono recenti, anzi sono state una costante storica. La Russia ha sempre voluto trovare un modo per conquistare il controllo degli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli, per non dover pagare infiniti dazi sulle proprie importazioni. In assenza di tale privilegio (peraltro mai concesso né ottenuto), il tentativo è stato quello di boicottare il passaggio trovando altri porti convenienti. In epoche recenti, la Jugoslavia sembrava una valida alternativa, ma Tito si è sempre mantenuto a debita distanza. Con la Guerra Fredda e il gioco al rialzo delle alleanze e delle influenze, soprattutto in Medio Oriente, la Russia ha trovato negli al-Assad una soluzione. Ha ottenuto la concessione di stanziare la flotta nel porto di Tartus prima e a Latakia poi. Ma la presenza russa in Siria è diventata fondamentale al momento della guerra civile, perché ha consentito alla Russia di rientrare sulla scena internazionale come una potenza capace di influenzare l’andamento dei conflitti della regione, ponendosi come mediatore. Insomma, ha dato la possibilità a Putin di sedere di nuovo al tavolo dei grandi, dopo esserne stato escluso con la crisi in Ucraina. Ed è proprio a questo tavolo che ha potuto giocare le carte che si era guadagnato con l’abile gestione dei tre poli a tendenza egemonica regionali.

Il più antico rapporto bilaterale è sicuramente quello con la Turchia, ed è anche quello più complesso e pericoloso. Russia e Turchia si fronteggiano da millenni, non hanno mai avuto relazioni facili, influenzate da un rapporto di vicinato viziato dalle reciproche mire espansionistiche. Geograficamente parlando la questione ha sempre riguardato la definizione del confine orientale dell’Anatolia. Una questione territorialmente importante per la Turchia in relazione anche alle sue minoranza etniche. Una geometria variabile a confronto di una molto più rigida, quella dell’URSS, che puntava a prendere tutti gli spazi lasciati liberi dell’Impero Ottomano.

Una relazione difficile, dunque, che si è però trasformata in reciproco vantaggio quando, nel 1984, si è giunti al primo accordo sul gas naturale. La Russia avrebbe rifornito di gas e petrolio la Turchia in cambio di vantaggi commerciali in materia di esportazioni. La Turchia poteva fare leva su questo rapporto privilegiato per ottenere vantaggi geostrategici in Asia. Ma in realtà questo non è avvenuto, e dopo un tentato posizionamento nell’asse eurasiatico, la Turchia è tornata sui propri passi asserendo il proprio ruolo di membro della NATO. Un cambio di mentalità che si radica in una molteplicità di motivi, tra i quali compare anche una completa perdita della bussola estera da parte del Presidente della Repubblica Erdogan. In ogni caso, il motivo più immediato del distacco tra Mosca e Ankara sta nella gestione russa della questione siriana e del terrorismo jihadista.

Fin dai primi segni di debolezza di al-Assad, Putin è stato sempre presente per garantirgli il mantenimento della propria posizione. Infatti, i numerosi vertici internazionali si sono scontrati con la fermezza russa, per cui non era prevedibile alcun futuro senza Bashar al-Assad. Per questo motivo, la Russia non ha esitato ad optare per il coinvolgimento militare diretto contro i “ribelli”.

Ma la questione siriana è per la Turchia una questione molto importante, che ha riaperto la questione dei Curdi in Turchia. Una questione che sembrava chiusa, bene o male. L’indipendenza del Rojava minaccia direttamente l’interesse nazionale dello Stato turco. E Putin non rassicura Erdogan, anzi lo sfida. Nel 2015, ha rallentato il traffico degli autotrasportatori turchi in entrata in Russia con dei controlli non propriamente giustificati, tanti sono anche stati rimandati indietro senza possibilità di commercializzare i propri prodotti; ha inoltre posto un aumento del controllo sulle derrate alimentari in uscita dalla Russia destinate al mercato turco.

A queste ritorsioni economiche la Turchia ha risposto facilitando il passaggio di terroristi di matrice islamica verso i territori del Caucaso, e in particolare in Cecenia, dove la spinta secessionista è stata forte e dove, oggi, basta poco per riaccenderla.

Un gioco al rialzo che ha raggiunto l’apice (almeno per ora) con l’abbattimento di due caccia militari russi da parte dei missili turchi. Il motivo? Avevano attraversato lo spazio aereo nazionale senza esplicita autorizzazione. Sì, ma per un totale di diciassette secondi: era una palese provocazione; che tra l’altro ha messo la NATO in posizione di seria difficoltà.

Insomma, gli obbiettivi di Putin in Siria sono chiari: mantenere al potere al-Assad, sostenendo le sue truppe contro quelle irregolari che lo affrontano. In altre parole, l’ISIS non è la minaccia principale, ci penserà poi.

Il sostegno alle truppe sciite, però, mette Putin in linea di collisione con gli interessi dell’Arabia Saudita, nonché quelli dei musulmani russi, una comunità in forte ascesa all’interno della Federazione. Allo allo stesso tempo, però, rafforza la posizione dell’Iran.

La Russia puntava sulla collaborazione dell’Iran già da tempo. Nel 2008, aveva rifiutato un vantaggiosissimo accordo sulle armi proposto dall’Arabia Saudita, in cambio di un allentamento delle relazioni con gli Ayatollah. Nel 2015, la Russia ha mediato in favore della conclusione dell’accordo con Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Germania per la fine dell’embargo nucleare e commerciale. Sempre nel 2015, la Russia ha revocato il divieto sulla vendita di sistemi di difesa missilistici all’Iran, anche se ha mantenuto quello sui sistemi di offesa. A livello energetico, però, Russia e Iran sono diretti competitori, perché dunque non ostacolarne la posizione internazionale? Perché mettersi nell’asse sciita, che fa capo all’Iran, potrebbe essere un modo per sedersi a quel tavolo dei grandi di cui sopra, ma potrebbe anche presentarsi come una leva di scambio per normalizzare la situazione nel Donbass, seguita alla spaccatura dell’Ucraina e all’annessione della Crimea. Inoltre, sostenere l’Iran dà un vantaggio che nessun’altra alleanza può dare: rompere magistralmente le scatole agli Stati Uniti e contestare in modo palese e diretto l’unilateralismo americano in Medio Oriente.

Contestare la presenza americana in Medio Oriente è anche ciò che spinge l’Arabia Saudita a firmare contratti sugli armamenti con la Russia. Ma le cose tra di loro stanno diventando più complesse. La Russia sostiene gli sciiti, e bombarda i gruppi sunniti in Siria, e ha aiutato l’Iran a uscire dall’isolamento, elevandolo a minaccia diretta. Non solo una minaccia regionale, ma una minaccia economica. Le enormi riserve di petrolio dell’Iran hanno inondato il mercato energetico, portando il prezzo del petrolio ai minimi storici.

Ma in questo contesto, quello economico-energetico, Arabia Saudita e Russia perseguono uno stesso obbiettivo e una stessa strategia. Dopo il drastico abbassamento del prezzo del petrolio, entrambi lo hanno mantenuto a livello basso, in modo da non cedere nessun centimetro della propria base di mercato internazionale. In questo modo hanno disincentivato lo sviluppo delle tecnologie necessarie all’estrazione di shale oil e shale gas Queste due nuove fonti sono quelle che garantirebbero agli Stati Uniti l’autonomia energetica. Uno scenario che entrambe le potenze vogliono evitare, dato che si troverebbero a gestire un enorme disavanzo di riserve senza necessariamente avere nuovi acquirenti.

Riassumendo dunque, mantenere Bashar al-Assad al potere è anche un modo per rientrare in un gioco internazionale, sul quale attirare l’attenzione mediatica. Putin ha infatti un’elevata necessità di distrarre la propria opinione pubblica dalla questione ucraina, ma soprattutto dalle politiche interne. Perché se è vero che Vladimir Putin è il nuovo zar, è anche vero che il suo impero è minacciato internamente dagli effetti di una doppia crisi economica: la prima, quella del 2008, quella globale, ha interrotto il trend di crescita del 7% annuo; la seconda è invece dovuta all’imposizione delle sanzioni internazionali per le azioni in Europa orientale. Una situazione economica grave che si combina con l’assenza di una borghesia portata all’accumulo, mentre invece è presente un’oligarchia che tende al monopolio. Ma questa è un’altra storia.

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