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Racconto / L’armadio di Nancy

di Andrea Gobbato

 

Nancy, quattro anni compiuti da un mese, posò delicatamente la testa sul morbido guanciale imbottito di piume d’oca, rannicchiando le gambe e accoccolandosi nel suo lettino. Guardando fuori dalla piccola finestra della sua cameretta, poteva vedere la luna, alta nel buio cielo stellato.

Sua madre entrò e le rimboccò fino al mento le coperte, quelle con sopra Winnie The Pooh e i suoi amici. Si piegò su di lei e le diede un bacetto sulla fronte, accarezzandole i lisci capelli castani.
«Buona notte, tesoro mio».
Nancy la osservò spegnere la piccola abat-jour appoggiata sul comodino, abbassare la tapparella e uscire dalla stanza, lasciandosi la porta chiusa alle spalle. La camera sprofondò nella più assoluta oscurità. Solo i raggi lunari, che filtravano dalle fessure della tapparella, gettavano qualche ombra confusa sul mobilio. Alla sua destra poteva scorgere il mobile con il grosso specchio e la cassettiera in noce, quella dove teneva i nastrini colorati con cui amava infiocchettarsi i capelli la mattina, prima di andare all’asilo a giocare con le sue amiche. Di fronte a lei invece si stagliava, come un gigantesco monolito, il grosso armadio a due ante dipinto di bianco, dove erano riposti ordinatamente su delle grucce tutti i suoi vestitini.
Ascoltò attentamente i passi della mamma rompere il silenzio della notte e attraversare il corridoio, diretti alla camera da letto, dove la aspettava il papà. Per qualche minuto regnò il silenzio più assoluto. Poi, le molle del letto matrimoniale dei suoi genitori cominciarono a cigolare.
Ecco. Stavano facendo di nuovo “quella cosa”.
La prima volta che li aveva visti, Nancy era rimasta molto spaventata. Si era alzata nel cuore della notte per andare in bagno, cercando di non far rumore. Passando  di fronte alla camera dei suoi. Aveva notato che la lune era accesa e la porta socchiusa. Senza volerlo, senza farlo apposta, aveva sbirciato dentro.
I suoi genitori erano avvolti nelle lenzuola. Suo padre era sopra sua madre e premeva il suo corpo contro quello di lei, ansimando. Quest’ultima aveva una strana espressione sul volto, come se soffrisse, e ogni tanto lanciava qualche gemito soffocato.
Nancy aveva sentito un vuoto nel petto, come se il suo cuore fosse improvvisamente scomparso. Non capiva quello che vedeva. Le lacrime le erano salite agli occhi, calde e brucianti. L’angoscia l’aveva stretta col suo gelido abbraccio. “Perché il papà fa così alla mamma? Non vede che le fa male?” aveva pensato la sua mente di bambina, confusa e sconvolta.
Ma poi si era accorta di essersi sbagliata. Improvvisamente suo padre aveva smesso di muoversi e sua madre gli aveva sorriso amorevolmente, lo aveva abbracciato e baciato sulle labbra, sussurrandogli parole dolci.
Nancy era rimasta perplessa. Se la mamma era così felice, allora quella era una cosa bella, non brutta.
Mah… Nancy aveva deciso di non pensarci più. Le cose dei grandi erano troppo complicate per lei; che se ne occupassero gli adulti.
Dopo alcuni minuti, il cigolio cessò. Anche i  suoi erano finalmente andati a dormire.
Nancy si rigirò nel letto. Si sentiva le palpebre pesanti come mattoni, non riusciva più a tenere gli occhi aperti. A forza di correre tutto il pomeriggio, giocando a nascondino all’asilo, era stremata. Giocare era proprio faticoso, cavolo.
Si stava assopendo quando sentì quel rumore. Spalancò gli occhi, ridestandosi improvvisamente dal torpore in cui era lentamente scivolata.
Un cigolio. Ma questa volta non proveniva dalla camera dei suoi genitori. Era molto più vicino, lo sentiva. Proveniva dalla sua stanzetta.
Si tirò a sedere sul materasso. I suoi occhi si posarono sul bianco armadio che incombeva sul suo letto: una delle due ante si stava lentamente aprendo verso l’esterno. La osservò attentamente, incuriosita. Non si sentiva spaventata, almeno per il momento. Nonostante fosse una bambina di soli quattro anni, era molto sveglia per la sua età. Non credeva nei mostri, il suo papà le aveva spiegato che non esistevano. «Sono solo un’invenzione di registi e scrittori per vendere le loro opere» le aveva detto.
Ma allora cos’era stato a spalancare l’anta in quel modo? Oltre a lei, seduta sul letto nel suo pigiamino azzurro con sopra disegnati degli elefantini, la stanza era deserta. La finestra era chiusa, pertanto non poteva essere stato il vento. E poi il vento non avrebbe mai potuto aprirla in quel modo, era impossibile.
Ma allora, voleva dire che…
Stava ancora rimuginando su cosa potesse essere stato a far schiudere l’anta, quando la udì. Una risatina, allegra e limpida come un ruscello di montagna, simile a quella di un bambino. Già, proprio così. Sembrava quella di un bambino, ma non lo era. Era più simile ad un grande che parlava in falsetto, cercando di imitare una risata fanciullesca.
Una risatina da dentro il suo armadio. Nancy iniziò a sentirsi intimorita. Guardò con maggiore attenzione dentro l’anta spalancata ma vestiti appesi alle grucce ne nascondevano il fondo.
Decise che avrebbe chiamato la mamma. Lei sarebbe andata a controllare là dentro e avrebbe risolto tutto. Aprì la bocca, preparandosi a gridare «Mamma!» con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
In quel preciso istante, le grucce iniziarono a rumoreggiare allegramente e gli abiti a ondeggiare avanti e indietro, come sospinti da una leggera brezza.
Come se qualcuno li stesse muovendo.
La voce le morì in gola. E poi…
«Naaaancy… ».
Fu solo un soffio, niente più che un bisbiglio, ma lo udì distintamente.
«Naaaancy…».
Nuovamente quella voce giocosa e acuta. La chiamava da dentro il suo armadio di vestiti. Strinse spasmodicamente la coperta tra le piccole mani. «C-chi sei?» chiese.
«Ciao Nancy…».
«Smettila di farmi paura, o chiamo la mia mamma!».
Dall’armadio giunse un’altra risatina. Le grucce tintinnarono più freneticamente. «No Nancy, non chiamare la mamma, per favore…».
«Perché? Cosa ci fai nel mio armadio?».
«Voglio diventare tuo amichetto, Nancy, ma se chiamerai la tua mamma lei ci impedirà di giocare assieme…».
Il viso della piccola assunse un’espressione dubbiosa. «Mi stai facendo uno scherzo?».
Altra risatina. «Certo che no, piccola mia. Non potrei mai e poi mai mentirti… Spero che anche tu vorrai essere mia amica, Nancy.  Se no, diventerò molto triste e mi metterò a piangere…».
«Non lo so… Come ti chiami?».
«Io? Io mi chiamo Lamashtu! Piacere di conoscerti, piccolina».
Un mezzo sorriso spuntò sul viso di Nancy. «Lamashtu? Che nome buffo che hai!».
«Ma tu non mi prenderai in giro, vero? Perché noi due siamo diventati amici, ora che mi sono presentato. Quanti anni hai, Nancy?».
La bambina alzò la mano destra, tenendola aperta e con il pollice schiacciato contro il palmo. «Tanti così!» disse.
«Oh, hai quattro anni! Ma allora sei abbastanza grande per venire a giocare qui con noi!» esclamò con tono festoso la voce da dentro l’armadio. Le grucce continuavano a scricchiolare e gli abitini a fluttuare come fantasmi nel buio.
«Noi?» chiese Nancy, sempre più confusa.
«Certo! Non penserai che io sia da solo, qui dentro. Ascolta!»
Nancy tese l’orecchio. Inizialmente non udì nulla. Ma poi, eccole lì!
Tante voci, voci di bambini che gridavano allegramente mentre giocavano a mosca cieca, a ruba bandiera, a rincorrersi e – guarda a caso – a nascondino, il suo gioco preferito. Voci di festa, voci di chi si sta divertendo da morire. Tutte lì, dentro il suo grande armadio. E nessuno le aveva mai detto nulla! Un piccolo sorriso le accese il viso infantile.
«Hai sentito?» esclamò compiaciuta la voce «Siamo in tanti qui e ci stiamo divertendo da matti! Vuoi venire anche tu?».
Il sorriso sul volto della bimba divenne ancora più ampio. «Sì, voglio venire anch’io a giocare!».
«Bene! Allora, cosa aspetti?».
Nancy gettò le coperte lontano e si sedette sul bordo del letto, le gambe penzoloni. Balzò giù e si diresse verso l’armadio.
«Vieni, piccola Nancy! Ti stiamo aspettando!».
Affrettò il passo. Il pavimento era gelato sotto i suoi piccoli piedi scalzi. Si trovava ormai di fronte all’armadio. Le grucce e i vestiti avevano smesso di ciondolare.
«Lamashtu?» chiamò. Non ricevette nessuna risposta. Si udivano solo più le grida degli altri bambini. Infilò cautamente un piede dentro l’armadio. Poi l’altro. Allungò le braccia in avanti, cercando di toccarne il fondo in legno con la punta delle dita.
«Lamashtu?».
Era ora circondata dagli abiti. Le sembrava di trovarsi all’interno di una fitta foresta di stoffa. Il buio le impediva di vedere un palmo più in là del proprio naso. Le voci degli altri bambini che erano nel suo armadio le giungevano da tutto intorno.
Ma c’era qualcosa di strano nel loro tono, qualcosa di sbagliato. Qualcosa che aveva capito solo ora, quando forse era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Non erano grida gioiose e allegre, quelle dei suoi coetanei rinchiusi lì dentro. Ma urla di terrore, disperate invocazioni d’aiuto a qualcuno che li salvasse da quell’incubo terrificante.
La voce di Lamashtu ricomparve all’improvviso, a pochi centimetri dal suo viso. «Benvenuta, piccola Nancy. Io e te saremo amici per sempre».
Alle sue spalle, l’anta dell’armadio si richiuse con uno tonfo assordante.

 

 

Nancy Chiari, quattro anni compiuti da poco, scomparve senza lasciare traccia nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2007, senza che venisse mai ritrovata.
Gli investigatori, sconcertati, non riuscirono a dare una spiegazione plausibile ai genitori, in lacrime e distrutti dal dolore. Era impossibile che qualcuno si fosse introdotto nel corso della notte nell’abitazione, porte e finestre erano serrate dall’interno e non era stato ritrovato alcun segno di effrazione. Sembrava proprio che la piccola fosse svanita nel nulla.
Nessuno fece caso al grande armadio bianco nella cameretta della bambina. Ma sarebbe
bastato avvicinare l’orecchio all’anta socchiusa per udire una flebile e inquietante risatina provenire dal suo interno.

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