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La rivoluzione David Bowie: l’uomo caduto dallo spazio

Quando il 10 gennaio del 2016 muore David Bowie, (pseudonimo di David Robert Jones), viene a mancare uno dei personaggi più controversi e poliedrici della scena musicale mondiale. Riassumendone la vita per sommi capi, si potrebbe semplicemente dire che Bowie sia stato un attore e cantautore britannico, nato in un sobborgo di Londra nel 1947 e precocemente interessato alla musica. 

Questi pochi dati, comunque, non riescono a trasmettere la complessità della sua opera che non è stata importante solamente da un punto di vista musicale: come la maggior parte della produzione di quegli anni, essa ha trovato un riscontro sociale, politico, generazionale, ponendo le basi per lotte e rivoluzioni decise a cambiare la forma mentis di un’epoca.
È la fine degli anni ’40, e mentre negli Stati Uniti l’esito tragico della guerra si lenisce con la diffusione delle prime band e dello swing, (Glenn Miller vince nel 1942 il primo vinile d’oro nella storia della musica), in Inghilterra il governo mette a bando i concerti degli artisti americani sino al 1956. Tale divieto non riguardava unicamente il mondo artistico-musicale ma era, anzitutto, sociale: l’impossibilità di tendere le orecchie all’esterno per un periodo di tempo tanto lungo, ha contribuito alla formazione di diverse realtà musicali indipendenti e individuali. 
Nei decenni successivi, e soprattutto col grande boom degli anni ’60, si compaiono sulla scena della musica nomi molto conosciuti: nascono i Beatles (1960), i Rolling Stones (1962), i Pink Floyd (1965), per inziare. In questi anni il giovane David, ancora studente, suona il sassofono e si ispira alla letteratura beat per comporre i suoi testi, provando ad inserirsi in diverse realtà musicali. Fino al 1966, anno in cui uscì la sua prima intervista ufficiale su un rivista dedicata esclusivamente alla musica: il ragazzo del sobborgo nella periferia sud di Londra era ormai sulla strada per diventare David Bowie. 

Non desideravo altro che locali. Ci andavo sia per l’esperienza sia per riempirmi le orecchie. Per il volume alto, per ascoltare Georgie Fame, per scoprire il jazz.” 
(David Bowie, 1993) 

La carriera dell’artista è un trionfo che inizia nel 1967 con suoni acerbi e prosegue immediatamente con Space Oddity, titolo dell’omonima canzone, inno indimenticabile tutt’oggi. In quest’album Bowie mischia folkglam, sperimentando soluzioni musicali sempre innovative; in Halloween Jack, personaggio emerso dal suo Diamond Dogs (1974), con un abbigliamento caratterizzato da colli di camicia in stile vittoriano, intreccia il soul al funk. È chiaro che la sua eccentricità non si focalizzava unicamente sugli aspetti tenici e musicali delle sue performance, bensì riguardava l’artista in senso stretto. Come caduto dallo spazio, Bowie è un muta-forma con mille volti e rappresentazioni, sa cambiare sempre pelle plasmando se stesso album dopo album: The Man who sold the World (1970), Hunky Dory (1971), The Rise and Fall of Ziggy Stardust and Spiders from Mars (1972), sono decisivi a tal fine. Un modo di pensare all’artista non solo inconfondibile ma, letteralmente, iconico. È qui che nasce un vero culto iconografico che associa David Bowie a Major Tom e Ziggy Stardust in primis; egli diviene l’uomo delle stelle, indossando una tuta aderente e mostrandosi quanto più fluido possibile. Una fluidità che aveva a che fare non solo col modo di porsi sul palco, ma con la sessualità, il genere e tutti i temi cari alle lotte per la tolleranza che allora, anche se meno di oggi, già imperversavano.

La musica di David Bowie diviene un simbolo così come la sua persona, mentre canta “Changes” qualcosa inizia a cambiare veramente; un senso politico che riunisce le masse, divide il pensiero, rende partecipi di una scelta. Come una metonimia del cambiamento, il Duca Bianco non si è mai sbilanciato in dichiarazioni politiche, quasi riaffermando la sua natura sovra-umana, aliena: immaginario confermato ulteriormente dalla sua partecipazione diretta al film “The man who fell to the earth” di Nicolas Roeg, 1976, dove Bowie interpreta la parte dell’extraterrestre Thomas Jerome Newton.

Marie-Lou: che cosa fai nella vita?
Thomas Jerome Newton: oh, sono solo in visita”

(“L’uomo che cadde sulla terra, Nicolas Roeg)

Ciò che Bowie crea intorno a sé è un mondo onirico, spasmodico e quasi schizofrenico. Un mondo, e un modo, totalmente differenti di concepire l’uomo: un cambiamento perpetuo e totalizzante. 

Così, storicamente e musicalmente, Bowie è l’icona di un muta-forma, si diverte a giocare costantemente sul non-confine tra i generi, sulle luci, il trucco, le forme e i costumi. Un uomo teatrale, innamorato delle mille sfaccettature che l’essere umano riesce a concepire di se stesso, interessato ad arrivare all’apice di ognuna delle sue forme. Egli è stato, senza ombra di dubbio, il trasformista più irriverente del secolo scorso; con Heroes, canzone composta a Berlino, e che è stata definita come “il grido disperato dell’ultimo romantico sulla terra”, continua la sua scalata verso l’eternità.
Blackstar, il venticinquesimo ed ultimo album dell’artista, è l’opera che parla del malessere del cantante, già colpito dalla malattia e prossimo alla morte; viene pubblicato nel giorno del compelanno di David Bowie, l’8 gennaio 2016. Due giorni dopo sarebbe morto, come a lavoro compiuto, lasciando a noi la sua immensa eredità: muore David Robert Jones, ma Bowie è eterno in ciò che ha creato. Con lui, allo stesso modo, lo sono i suoi mille volti: Major Tom, Ziggy Stardust, Halloween Jack, Thomas Jerome Newton e tutti gli altri, altro non sono che frammenti di anima disseminati nella sua opera, ferma nell’eternità. 

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