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Racconto/ Ancora una

di Andrea Gobbato

 

Paolo si sedette al tavolo della cucina, i capelli scompigliati e gli occhi semichiusi. Lentamente, tirò su il cucchiaino fino all’altezza del viso e ne osservò il contenuto, come se fosse la prima volta che lo vedeva. Mentre invece erano ottimi amici.
Un brivido gli scivolò lungo la schiena. Quand’era stata la prima volta che aveva compiuto quel gesto, così simile ad un rituale? Forse quando Speed, su quella panchina gelata ormai così lontana nel tempo, gli aveva detto: «Dì un po’ bello, ti andrebbe di inseguire il drago?». Il “Drago” gli aveva fuso il cervello immediatamente, trasportandolo in un mondo immerso nella nebbia, dove caldo e freddo si mischiavano tra loro in un’unica sensazione, un paese magico delle meraviglie dove tutto andava bene. Salvo poi risvegliarsi in una pozza di vomito dopo un paio d’ore, raggomitolato a terra e tremante.
Tutto era cambiato da quella sera. Tornare in quel paradiso fittizio era diventato un chiodo fisso, piantato in profondità nel cervello. Aveva cominciato a rubare, prima dal cassetto dei maglioni dove i suoi tenevano nascosti i risparmi, poi piccoli oggetti nei negozi. Perché il biglietto per allontanarsi dalla realtà diventava sempre più costoso. Il bisogno di fuga sempre più impellente.
Laura lo aveva visto trasformarsi dal bel ragazzo sorridente che era in uno scheletro vestito di stracci, un non-morto con gli occhi iniettati di sangue e la barba ispida, sempre più prigioniero di una spirale autodistruttiva. Quando alla fine, sull’orlo di una crisi di nervi, lei urlò:«Scegli Paolo, scegli! O me o quella merda!», lui scelse; e quella notte fece l’amore con la sua nuova fidanzata, iniettandosela direttamente nelle vene del collo.
Era scivolato sempre più giù nell’abisso, finché non aveva toccato il fondo; non contento, si era messo a scavare. Speed era stato trovato in fin di vita, nei cessi della stazione, con ancora la spada nel braccio. Era andato al funerale e aveva visto come le altre persone lo osservavano, come lo giudicavano. Ma ormai non gli importava più. Sapeva che sarebbe stato il prossimo, perché ormai non poteva più scappare, era un animale braccato e con le spalle al muro. Il Nirvana aveva mostrato il suo vero volto, rivelandosi un inferno umano peggiore di quello divino. Il sogno si era trasformato in incubo.
Lo avrebbero trovato rigido, con gli occhi sbarrati e con ancora il laccio emostatico che si era allacciato coi denti stretto attorno al bicipite, ed il suo ultimo pensiero prima di piombare nel nulla eterno sarebbe stato “Ancora una… ancora una e tutto andrà meglio… tutto si sistemerà… ancora una… ancora una…”.
“Ancora una…”.
La mano che teneva il cucchiaino tremava, mentre tutte quelle immagini, quei ricordi lo bombardavano. Adagio, rovesciò la piccola posata.
Lo zucchero cadde dentro il caffè, in una piccola cascata di cristalli candidi.
«Mai più…» si disse, sentendo una lacrima calda scorrergli lungo la guancia ben rasata.
«Mai più…».

4 pensieri riguardo “Racconto/ Ancora una

  • “Portare la torcia al fondo della caverna…” Quante volte ho pensato a questa espressione, leggendo. Una caverna, in fondo alla quale, sembra esserci un po’ di luce…

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  • Cristina

    Complimenti per il racconto. Originale e ben scritto.

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  • Andrea Gobbato

    Grazie a tutti per i complimenti.

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