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Più forte del destino

di Valeria Sforzini

Antonella Ferrari, nel ruolo di attrice e ambasciatrice AISM, porta in scena a Pavia lo spettacolo Più forte del destino: la storia della sua vita, delle difficoltà e delle gioie legate dal filo rosso della sua malattia, la sclerosi multipla. La carriera nel mondo dello spettacolo, la voglia di reinventarsi e, nonostante tutto, il desiderio di strappare un sorriso sfatando luoghi comuni sulla disabilità e tingendo tutti i momenti (e le stampelle) di colori.

Antonella Ferrari

Inchiostro – un inizio carriera travagliato, l’amore per la danza e l’avvicinamento alla recitazione, in che modo la malattia ha influenzato le tue passioni?
Antonella Ferrari – Ho iniziato fin da piccola a fare danza, sono stata una ballerina di fila finché la malattia me l’ha permesso. Nel 1993 purtroppo ho dovuto dire addio al ballo. Il teatro è stato una salvezza: nel momento in cui non ho più potuto ballare ho preso la recitazione come una sfida, volevo scoprire se la carriera potesse prescindere dalla salute.

Ci sono state delle persone in particolare che ti hanno aiutata nei momenti più critici?
Io ho avuto i primi sintomi a undici anni e la diagnosi a ventinove. In quegli anni sono state avanzate moltissime ipotesi riguardo alla causa del mio dolore, nessuno riusciva a scoprire la verità. Quando ho avuto la diagnosi per me in realtà è stata una bella notizia: finalmente scoprivo quale fosse la mia malattia.
Ricordo quella notte: la dottoressa si è avvicinata al mio letto, mi ha sussurrato che avevo la sclerosi multipla. L’ho vissuta come una vera liberazione, finalmente sapevo contro cosa dovevo combattere.

Dopo la diagnosi c’è stato quindi un allontanamento dallo spettacolo e un avvicinamento all’ ambito accademico.
In realtà quando sono stata costretta a lasciare la danza nel ’93 ho voluto cambiare del tutto. Ho avuto la diagnosi molto più tardi, a ventinove anni, quando ero ormai da tempo iscritta all’università e avevo già ricominciato a fare teatro. Volevo studiare Psicologia perché cercavo di capire se tutti questi medici che mi dicevano che ero stressata avevano ragione, e se la mente umana fosse in grado di somatizzare a tal punto da rendere così reale un dolore. Nel mio caso la risposta è stata no.

Lo studio della psicologia ti ha aiutata a capire?
Mi ha aiutata a capire e a guardarmi dentro. Contemporaneamente  però studiavo recitazione, quindi ho iniziato a sentire che il palcoscenico era la mia strada, che Antonella doveva stare sul palco. Era il mio modo di comunicare, era il mio futuro, era quello che mi faceva stare bene, mi sentivo a casa in teatro, mi sentivo inadeguata e strana in tutti gli altri ambienti.

Successivamente c’è stato l’avvicinamento alla scrittura e a Mediaset.
In quegli anni, attorno al ’95, ho iniziato a fare l’autrice, ma continuavo a fare spettacoli e a vivere il mio teatro  in modo molto intimo. Non avevo il coraggio di presentarmi ai provini, avevo paura che  questo mio modo di camminare e queste mie stampelle  potessero bloccarmi. Tutti però mi spingevano a farmi avanti e alla fine ho iniziato. La diagnosi era già arrivata. Dal 1999  ho iniziato a fare provini anche per la tv e per il cinema: sono stata scelta per un cortometraggio il quale, arrivato poi nelle mani dei produttori di Centovetrine, ha fatto sì che fossi scelta senza che sapessero della mia malattia.

Lo hai celato?
L’ho nascosto per tanto tempo, ma al provino l’ho detto. Fortunatamente in quel caso non è stato un problema, in altri casi lo è stato. Il personaggio doveva essere di passaggio, ma è rimasto per cinque anni perché è piaciuta molto la verità di un’attrice che camminava con le stampelle colorate sia nella soap che nella vita.
Se ne è parlato molto, fin troppo, si era diffusa la voce di una novità della tv italiana che aveva aperto le porte alla disabilità. In realtà non è andata proprio così, ci sono ancora molti problemi.

Quindi tante difficoltà ma vissute con moltissima determinazione.
Io volevo vincere questa battaglia, la recitazione era la mia valvola di sfogo: tutte le volte che mi chiudevano porte in faccia cercavo di riaprirle, volevo dimostrare che anche una persona con disabilità poteva fare questo mestiere

Un raccontarsi che diventa un aiuto per gli altri.
In realtà me ne sono accorta dopo. Le persone iniziavano a scrivermi, si avvicinavano moltissimo a me, mi comunicavano la loro stima e mi dicevano: “vai avanti tu per noi”. Credevano nella lotta.
Io tengo una rubrica sul settimanale Chi, mi scrivono in moltissimi, le persone sanno che io ho realmente sofferto, che sono vera, e quindi mi comunicano le loro sofferenze.

Quando ha avuto inizio la collaborazione con AISM?
All’ inizio, quando ho iniziato ad andare in onda con Centovetrine, quando si è iniziato a parlare del mio problema mi hanno chiesto di diventare loro testimonial. Io ho accettato con grande felicità: chi fa questo mestiere può aiutare molto dando voce alla propria testimonianza sfruttando l’immagine che si è creato.

La copertina del libro

 

Da cosa nasce lo spettacolo?
Dal libro uscito due anni fa e che è andato stupendamente anche per la critica. Ma visto che il mio lavoro è l’attrice e non la scrittrice, anche se mi sono cimentata, ho deciso di trasformare il libro in uno spettacolo per portare in scena la mia storia.
Parlare di disabilità sul palcoscenico non significa comunicare solo dolore, si riderà anche molto. Non sempre parlare di disabilità vuol dire rattristare: ci sono tanti momenti di felicità, di rabbia, di riflessione, si tenta anche di sfatare alcuni luoghi comuni che sono stufa di sentire!

Torna un po’ in luce la ragazza con le stampelle colorate…
Assolutamente sì! Questo spettacolo è a colori, continuo a vivere la mia disabilita a colori, deve vivere di divertimento: questo è già una argomento spigoloso, si può provare ad alleggerirlo senza sminuirlo, e a guardarlo con altri occhi.

 

Cosa suggerisci a ragazzi giovani che vogliono sfondare nel mondo dello spettacolo e che si trovano a vivere una situazione di disabilità?
Di studiare, di perseverare, di non cercare scorciatoie, di sapere che è necessario essere pronti:,se sei disabile devi essere proprio bravo, non puoi permetterti nessun errore perché poi lo useranno per eliminarti. Io dal punto di vista artistico so di essere preparata, di aver fatto tanta gavetta, di non essermi improvvisata.

Quali sono state la difficoltà maggiori che hai incontrato nella vita fuori dallo spettacolo?
L’essere accettata, soprattutto nel mondo del lavoro. Essere discriminata, o di scoprire che la disabilità ha degli stereotipi difficili da sradicare: per cui se sei in sedia a rotelle, triste e smunto, hai il diritto di stare male. Se invece reagisci, ti trucchi e ti vesti bene e cerchi di essere sereno allora non sei malato, non fai parte del club. È una roba triste. Una volta mi sono sentita dire da un amico: «Tu non sei disabile, sei malata». Ma perché queste differenze? Non sempre la disabilità è evidente agli altri, ma è evidente a te.

Quindi bisogna fare di tutto per non lasciare che la disabilità ci identifichi?
Sì: io non sono la sclerosi multipla, io ho la sclerosi multipla. Io posso essere simpatica o antipatica a prescindere dalla mia malattia, non deve influenzare il giudizio degli altri.

Progetti per il futuro?
Portare avanti lo spettacolo. Spero che dopo la fiction su Rai uno Un matrimonio ci siano altri registi che abbiano voglia di lavorare con me nonostante tutto, di essere scelta di nuovo – non per i miei problemi di salute, ma perché posso emozionare. Per lavorare essendo riconosciuta per la mia bravura.

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