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(Perché) Punisher non è per tutti

Il visto censura di Netflix (tra l’altro in questo caso neanche severissimo) classifica Punisher come un prodotto vietato ai minori di 14 anni. Ma ci vuole molto più di un bollino VM14 per spiegare perché Punisher non sia una serie adatta a tutti, soprattutto a un pubblico generalista che vedendo il logo “Marvel” si tufferebbe sicura nella visione pensando “supereroi!”. E non mi sto riferendo alla violenza esplicita (come è giusto che sia in una serie simile), ai toni decisamente cupi o alla scrittura di alto livello. Mi riferisco prima di tutto a una costruzione del contesto che mai prima d’ora si era visto in una serie Marvel/Netflix e secondariamente a un modo di porsi verso il pubblico decisamente anticonformista e poco clemente. Punisher è una serie che non si cura del suo pubblico né è chiaro se ne abbia uno ma soprattutto è una serie che non si sforza di piacere: e proprio in questo risiede la sua grandiosità.

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Partiamo col dire che Punisher parte da una premessa narrativa un po’ a buon mercato e forse pure un po’ inflazionata. Frank Castle (un Jon Bernthal stratosferico) è morto, almeno ufficialmente, e a causa della libertà che gli garantisce la sua condizione, il fu una volta Punitore, come un novello Adriano Meis, si aggira per i bassifondi di New York alla disperata ricerca di un’attività (rigorosamente legale) che possa garantirgli la sussistenza. Ma il passato tornerà a infestare Frank e non soltanto tramite il dolore della recente perdita bensì attraverso l’ombra di qualcosa di orribile che semplicemente non poteva stare sotto il tappeto. Il tema è quindi quello del complotto militare e il contesto quello dello spionaggio, entrambi contorni perfetti per un personaggio come Frank Castle diviso tra guerre d’oltreoceano e urbane. Nella prima metà di stagione la trama si sviluppa lentissimamente, centellinando personaggi ed eventi e questo può senza dubbio causare qualche problema a quella parte di pubblico che cerca l’azione fin dal primo episodio. Ma quella di Steve Lightfoot, scrittore principale e ideatore della serie, non è timidezza ma una precisa scelta stilistica e narrativa che adempie bene il suo scopo: quello di raccontare la psiche dilaniata di un veterano che soffre di SPT.  In questo la serie riesce splendidamente a illustrare la natura controversa di un personaggio come il Punisher, ancor più problematica se si considerano i fatti di cronaca recente negli Stati Uniti, e dà pure una risposta all’annosa questione che già Christopher Nolan aveva posto nel 2008 a un personaggio diverso ma in un contesto simile, il vigilantismo (“Che differenza c’è fra e me te?” “Io non indosso imbottiture da hockey” – Il Cavaliere Oscuro). La risposta del Punitore, se così si può dire, è tanto semplice quanto ben argomentata: la differenza sta nel nucleo emozionale e la portata affettiva che Frank Castle porta con sé e che non può condividere con nessun altro. Non è quindi il caso di Lewis Wilson, interpretato da uno stellare e immenso Daniel Webber, il quale ha smarrito lungo la strada pezzi del proprio essere e la capacità di ricomporli, complice anche lo Stress Post Traumatico e una compagnia poco raccomandabile. Poco importa se Lewis si definirà in linea con il modus operandi di Castle, quello che importa è il casus belli. Ne sa qualcosa il personaggio di Micro alias David Lieberman (una grande interpretazione di Ebon Moss-Bachrach) che cercherà l’aiuto di Frank non tanto per vendicare ma più che altro per rivendicare qualcosa che gli appartiene di diritto: la quotidianità. Nella seconda metà di stagione la serie deflagra in tutta la sua potenza regalandoci scene d’azione e colpi di scena degni della seconda stagione di Daredevil, avviandosi verso una conclusione cruda e soddisfacente. In tutto questo non mancano riferimenti espliciti alla politica interna ed estera degli Stati Uniti con vere e proprie dita puntate e non solo metaforicamente verso la questione delle armi e il loro controllo, i crimini di guerra e gli innumerevoli scheletri nell’armadio delle agenzie di spionaggio.

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Ma c’è dell’altro: Punisher è un prodotto particolare perché esalta qualcosa che di solito nelle serie a tema supereroi è, spesso a torto, sottovalutato: l’importanza delle facce. Possono sembrare considerazioni quasi banali ma in una serie dove non si vedono costumi sgargianti e maschere iconiche le facce assumono un’importanza centrale. Ecco allora Jon “faccia da pugile” Bernthal, che di certo non sarà bello per i canoni classici dell’estetica maschile ma grazie alla sua grande performance sa essere al tempo stesso intimidatorio e amichevole. O Ben “faccia d’angelo” Barnes (i suoi ruoli più famosi? Il principe Caspian delle Cronache di Narnia e Dorian Gray nell’omonimo film del 2009) scelta azzeccatissima di cast per il personaggio di Billy Russo che punta molto sull’aspetto e sul fascino. O ancora che dire della faccia di Daniel Webber, che abbiamo già avuto modo di apprezzare in un ruolo simile, quello Lee Oswald in 22.11.63 l’anno scorso. Qualunque bravo attore può interpretare uno psicopatico ma solo pochi ti convincono di esserlo già dalla faccia. E in tutto questo non manca un meta-riferimento dello stesso Michael Nathanson (che nella serie interpreta Sam Stein un agente della Homeland Security) che in un episodio afferma con condivisibile amarezza che “è per questo che solo i belli sono al potere”.

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Politica, psicologia, criminologia e pure un pizzico di fisiognomica lombrosiana, a Punisher non manca nulla per entrare nel pantheon delle produzioni Marvel/Netflix di qualità salvo forse l’approvazione del pubblico meno impegnato che magari si aspettava un po’ più di fan-service. Ma va benissimo così, il pubblico generalista potrà dire liberamente la sua sulle eventuali mancanze e sul ritmo lento. Ma gli intenditori duri e puri si sono già espressi: “bentornato Frank”.

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