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Maja, donne abruzzesi ed episodi di vita contadina: l’intervista a Francesca Camilla D’Amico

Al Teatro La Scala della Vita, per il Festival Milano Off, è andato in scena Maja, uno spettacolo sulle donne dell’Abruzzo contadino fra Ottocento e Novecento. L’attrice monologante, Francesca Camilla D’Amico, della compagnia pescarese Murè Teatro, ci racconta la genesi dell’opera, di cosa significa fare teatro popolare e dei progetti in cantiere.

D Al centro di Maja ci sono storie di donne abruzzesi: come è nata la drammaturgia di questo testo? Le storie narrate sono frutto di fantasia o si tratta di ricostruzioni storiche?

R La drammaturgia è nata da una ricerca che ho portato avanti nell’ultimo anno con le mie nonne e anziani di vari paesi dell’Appennino abruzzese. Le storie sono assolutamente vere, raccontate da anziani che le hanno vissute. Comprendono un periodo che va dalla fine dell’800 al secondo dopoguerra. Alcune storie che riguardano il Cupello o in particolare il sud dell’Abruzzo provengono da un libro che si chiama Gente buna o buna gente che scrisse una maestra di questo paese: alcune storie e filastrocche e canti provengono da questo libro.

D Ad un certo punto, nello spettacolo, menzioni un fatto:  le donne utilizzavano il lavatoio come luogo in cui condividere le vicende familiari, anche quelle più infauste. Il fatto era così noto che l’autorità vietò loro di parlare in quel luogo di questioni familiari, per non danneggiare la figura del capofamiglia. Anche questa è una ricostruzione storica?

R Sì, per quella piccolissima parte dello spettacolo che riguarda la storia del lavatoio, mi ha aiutato moltissimo un libro di uno studioso che si chiama Giovanni Damiani, La sagra degli antichi saponi, una trattazione quasi scientifica legata alle donne, all’acqua, a quello che con l’acqua si faceva.

D Maja è l’ultima donna che compare sul palco, ed è anche il nome che porta lo spettacolo. Chi è questa figura?

R Quella di Maja è una leggenda abruzzese legata alla Majella. Uno dei significati della Majella è “montagna madre”, la radice “mai-” è “madre”. Pare che questa Dea Maja provenisse dalla Siria o dalla Grecia, alcune versioni dicono anche dall’India, e scappasse da una guerra con un figlio malato. Attraversò il mare e arrivò in Abruzzo cercando la cura per suo figlio. Il suo viaggio terminò con la perdita del figlio e il suo vagare sulla montagna che, in suo onore, la gente del posto chiamò Majella.

D Perché lo spettacolo porta il suo nome?

R È diventato il titolo dello spettacolo in quanto emblema, per rappresentare tutte quelle donne che si riconoscono in un’unica figura.

D Lo spettacolo si apre con una registrazione. A chi appartiene la voce?

R La voce che si sentiva all’inizio era quella di mia nonna. Mia nonna era analfabeta, la poesia che si sentiva in quella registrazione non è mai stata scritta ma era una sua composizione orale, che nacque dalla ricerca di una casa. Lei dalla campagna si spostò in città, non riusciva a trovare una casa e allora inventò questa poesia: Donna sventurata. Mi sembrava che si collegasse molto bene alle vicende di Maja, anche lei una donna sventurata. Ho cercato di chiudere il cerchio, di fare un collegamento tra la poesia di mia nonna e la storia di Maja.

D E le altre voci registrate che si sentono a chi appartengono?

R C’è una voce di donna, che risale agli anni 50. E qui arriviamo a toccare l’altra parte della ricerca, quella che riguarda i canti. Alcuni di questi canti li ho ascoltati direttamente da donne come mia nonna, come mia madre. Altri li ho ascoltati attraverso archivi, ricerche che sono stati fatti da due studiosi in particolare: Pino Gala ed Emiliano Gian Cristofolo. Ho avuto la possibilità di ascoltarne le registrazioni. La voce di quella donna faceva parte di queste registrazioni. Registrazioni che riguardano un periodo tra gli anni ‘50 e ‘60.

 D Si può dire che Maja sia una sorta di rappresentazione antropologica abruzzese.

R Maja fa parte di un progetto più grande che si chiama  La gente allegra Di’ la aiuta (“La gente allegra Dio l’aiuta”), che non ha a che fare con la religione ma con un fatto: nelle condizioni di fatica del passato l’allegria non mancava mai. Adesso ci lamentiamo sempre moltissimo e allegri lo siamo poco. Volevo mettere in risalto questo aspetto dell’allegria.

 D Come si articola questo progetto teatrale?

R È una trilogia. Il primo episodio è Maja, filone della figura della donna nella civiltà contadina abruzzese. Un altro episodio affronta il tema del lavoro: ho raccolto tantissime storie su lavori che ormai non ci sono più o se ci sono vengono svolti non da italiani. E infine la Resistenza che è passata per il nostro territorio. Una Resistenza popolare, silenziosa, di eroi ed eroine che non sono ricordate nei libri di storia.

 D Sono drammaturgie già concluse?

R Gli altri episodi sono stati pensati,  ma non sono ancora drammaturgie compiute, sono ancora in embrione.

 D È la prima volta che questo spettacolo va in scena fuori dall’Abruzzo?

R Questa è la prima tappa che fa fuori l’Abruzzo. Ho fatto un piccolo viaggio a Roma per aprire uno spettacolo. Ha debuttato a dicembre a Pescara, 12 repliche, anche nelle scuole. Ha ricevuto un riconoscimento dall’UDI, Unione Donne in Italia, e dalle Donne Vestine. Questa è la prima tappa fuori: speriamo apra la strada!

D Hai trovato un riscontro diverso nelle reazioni abruzzesi e quelle milanesi?

R Non ho trovato differenze fra le reazioni in Abruzzo e quelle al Milano Off, che per me è stato un banco di prova: incontrare un pubblico non autoctono per vedere se lo spettacolo era comprensibile. Molte parole sono in abruzzese, alcune si perdono: ma è stata una mia scelta, per non snaturare la ricerca non ho voluto tradurre tutto. Credo che il suo della lingua influenzi anche gli atteggiamenti di certi personaggi, le caratterizzazioni.

 D Oltre a Maja, tutto il tuo teatro è improntato sulla valorizzazione del territorio?

R Faccio teatro con un gruppo che si chiama Murè Teatro, l’ho fondato insieme ad altri giovani attori pescaresi 5 anni fa. Abbiamo deciso di fare un teatro popolare a contatto con le radici. Ci siamo detti: iniziamo da qui, da questo territorio che abitiamo. Abbiamo incontrato pescatori ultranovantenni, raccogliendo le ultime loro memorie, raccontando qual era la Pescara che hanno vissuto loro.

Ma non parliamo solo del nostro territorio, abbiamo anche l’idea di essere in contatto con linguaggi contemporanei e con l’attualità.

 D Un esempio?

R C’è stato uno spettacolo, che nel 2015 è stato anche finalista al premio scenario per Ustica per l’impegno civile, si chiama Courage: storie di coraggio, resistenza e immigrazione. Abbiamo fatto un lavoro che viaggiava su più piani. Noi vestivamo i panni di una compagnia che cercava di mettere in scena Madre Courage e i suoi figli. Abbiamo messo in collegamento le storie di migrazione dei nostri nonni e bisnonni dall’Abruzzo verso altre regioni d’Europa e l’America con le emigrazioni di oggi, di chi viene dall’Africa; la resistenza delle donne afgane con quella delle tabacchine, le lavoratrici delle fabbriche di tabacco che in Abruzzo conquistarono i primi fondamentali diritti dei lavoratori.

 D In Maja l’interazione con il pubblico è fortemente presente: è legata al tuo modo di concepire il Teatro?

R Io penso che il Teatro debba essere collegamento con le persone, aperto allo scambio. Uno dei principi della narrazione è proprio la relazione con gli altri. In Abruzzo facciamo teatro in montagna, su un sentiero che sta a 900 metri. Abbiamo raccolto le storie di quel luogo attraverso pastori, contadini e, con canti e racconti, accompagniamo gli spettatori dentro il sentiero: una scenografia che cambia ogni mese, con fioriture diverse a seconda della stagione. A teatro queste cose non sono possibili.

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