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Non è un paese per giovani

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di Francesco Rossella

Ha fatto molto scalpore la lettera aperta del direttore della LUISS Pier Luigi Celli (nella foto) pubblicata su “Repubblica” il 30 novembre, nella quale in pratica esortava suo figlio a lasciare l’Italia per mancanza di prospettive lavorative, riconoscendo il fallimento della sua generazione. L’intervento ha suscitato molte polemiche per l’ipocrisia e le contraddizioni derivanti dal ruolo privilegiato del suo autore: ci vuole una bella faccia tosta a denunciare i mali della società italiana quando si è a capo della prestigiosa università privata romana, e prima ancora si è stato direttore generale della RAI, l’azienda di Stato più lottizzata di tutte!
Ha però avuto il merito di riaprire il dibattito su quella che è una realtà innegabile del nostro Paese, riscontrabile da tempo ma recentemente aggravata dalla recessione economica: le grandi difficoltà che i giovani italiani, specie se laureati, incontrano nel trovare un posto di lavoro, possibilmente fisso e ben pagato, che li ripaghi dei sacrifici fatti durante anni di studi. La conseguenza inevitabile è spesso la fuga di migliaia di neolaureati che abbandonano l’Italia in cerca di migliori fortune. Il nostro è sempre stato un popolo di emigranti, ma, mentre nel secolo scorso ad andarsene erano soprattutto contadini e operai, spinti dalle precarie condizioni di vita del nostro Paese, al giorno d’oggi, invece, a fuggire sono gli elementi più dinamici della società: ricercatori, ingegneri e dottorandi che preferiscono cercare lavoro all’estero, a costo di lasciare le loro famiglie, piuttosto che barcamenarsi per anni tra stage non retribuiti, lavori precari, co.co.co e via dicendo.
Chi scrive, prossimo alla laurea e con un futuro incerto davanti, si trova in questa precisa situazione e dà quasi per scontata l’idea di trasferirsi all’estero a breve. Ma ci sono molti ragazzi che questa scelta l’hanno già fatta e che non se ne pentono minimamente. E’ il caso di Ivan e Marco, giovani ingegneri informatici laureati con lode al Politecnico di Torino (un centro d’eccellenza, insomma, mica pizza e fichi!) i quali, dopo uno stage retribuito rispettivamente in Spagna e in Francia, ora lavorano stabilmente uno a Dublino e l’altro in Costa Azzurra. Tornare indietro? “Neanche per sogno”, rispondono convinti. Ora stanno bene, hanno un buon stipendio, vivono in paesi che offrono servizi nettamente migliori se paragonati a quelli italiani, e soprattutto vedono una prospettiva per il loro futuro.
A facilitare questa “diaspora” hanno contribuito anche i grandi progressi nei campi delle comunicazioni e dei trasporti: lo shock culturale che una volta si poteva sperimentare nell’andare in un paese diverso, oggigiorno si è ridotto fino a scomparire grazie ai social network, a Skype e ai voli low cost che permettono di restare sempre in contatto con la famiglia e gli amici e di tornare a casa spesso; inoltre, il procedere dell’integrazione europea ha fatto sì che i giovani possano vivere all’estero già durante il proprio percorso di studi, grazie a programmi di scambio come l’Erasmus, e che godano degli stessi diritti in quanto cittadini europei indipendentemente dallo stato in cui abitano.
Intendiamoci, non tutto è oro quello che luccica: anche i nostri vicini europei sono stati colpiti duramente dalla crisi, con tassi di disoccupazione a volte superiori ai nostri. Tuttavia, altrove il merito sembra ancora prevalere sulla raccomandazione, lo Stato crede nei giovani e investe su di loro in termini di borse di studio, di sussidi, di opportunità di carriera. L’Italia, invece, sembra essere rimasta ancora ferma a vent’anni fa, prigioniera dei suoi mali atavici, dei suoi privilegi corporativisti che bloccano ogni possibilità di crescita e di rinnovamento. Siamo il paese delle caste e dei baronati, dei “furbetti del quartierino” e dei concorsi truccati. Un paese dove un cittadino su cinque evade il fisco, secondo le stime Istat, e poi tutti a lamentarsi se i servizi sono scadenti; dove la spesa per la ricerca è pari a un misero 1,10% del PIL, la metà della Germania e addirittura un terzo della Svezia; dove l’età media dei docenti universitari è di 51 anni contro i 44 della Spagna, per non parlare di quella della classe politica; dove la criminalità organizzata è di gran lunga la prima azienda per fatturato. Si potrebbe andare avanti all’infinito citando dati su dati che non farebbero che confermare questa crisi profonda della società italiana. Ma non è il caso: in fondo, è tutta una questione di cultura e di mentalità. E noi italiani, si sa, in questo siamo difficili da cambiare.

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