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Mezzi di distrazione di massa

Mezzi di distrazione di massa

“Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un’autorità su come far pensare la gente. Ci sono i giornali per esempio […].”
(Orson Welles – Charles Foster Kane, Quarto Potere, RKO 1941)

di Nicolò Carboni

Nel 1941 Welles, nel suo più grande capolavoro, tracciava l’impietoso ritratto di un ricco petroliere che, inventatosi prima giornalista e poi editore, era convinto di poter formare la pubblica opinione con i suoi giornali e le sue radio. Usando spregiudicatamente tali mezzi, infatti, tentò prima di farsi eleggere governatore di New York e poi costruì a tavolino la carriera teatrale di una sua viziata e pretenziosa amante. Esiste un Charles Kane italiano, e soprattutto è vero che nel giro di vent’anni i politici si sono mangiati la RAI e, più in generale tutto il sistema radio – televisivo italiano?
Ne hanno discusso ieri sera in aula del ‘400 il giornalista e scrittore Gianni Barbacetto, il costituzionalista della Sapienza Claudio Chiola e Roberto Zaccaria, ex presidente RAI e professore di Diritto dei mezzi d’informazione all’Università di Firenze, in una serata organizzata dall’UDU.

Dopo un’introduzione curata da Caterina, che si è soffermata sul problema del finanziamento pubblico ai quotidiani (oltre 1 miliardo di euro in totale), sull’annosa questione del duopolio RAI – Mediaset e, più in generale sulla mancanza di un vero pluralismo nell’informazione italiana, il dibattito è entrato nel vivo con l’intervento di Barbacetto che, ricordando la sua esperienza al Mondo (il settimanale economico del gruppo RCS) conclusasi in modo traumatico dopo un’inchiesta su Salvatore Ligresti, ha spiegato come, al giorno d’oggi, le redazioni siano succubi non tanto di direttori più o meno schierati, quando degli uffici marketing che devono spartire la torta pubblicitaria. In un sistema, infatti, dove oltre il 60% degli introiti dei quotidiani proviene dalla pubblicità è impossibile fare del giornalismo davvero libero. Questo cortocircuito fra affari e editoria però non è un’anomalia solo italiana, Barbacetto infatti ha citato il caso di Newsweek che, poco dopo la morte di Gianni Versace fu costretto da alcuni grandi inserzionisti a non pubblicare un articolo fortemente critico nei confronti dello stilista per evitare rivalse ed eventuali perdite economiche. Il vero problema italiano è, sempre stando a Barbacetto, è la frammentazione della proprietà dei giornali e la mancanza di editori puri, che considerino il giornalismo il loro core business. Nel Bel Paese, infatti, esistono alcuni imprenditori, più o meno impelagati con la politica, come Ciarrapico, Caltagirone o altri che usano i piccoli giornali locali per scambiarsi favori con la classe politica (emblematico in questo senso è stata la candidatura del Ciarra alle ultime elezioni, definita dal Cavaliere “necessaria, perché ha i giornali e abbiamo bisogno che siano dalla nostra parte!”).
Barbacetto ha poi continuato ricordando come, rispetto agli anni ’80 e ’70, sia anche sempre più difficile capire chi sia in realtà l’editore dei giornali. Il Corriere della Sera, per esempio, è passato dalle salde mani di Giovanni Agnelli ad un Trust di Banchieri ed imprenditori che, spartendosi le azioni di RCS hanno reso di fatto impossibile per i giornalisti anche solo azzardarsi a criticare un membro della Razza Padrona, per dirla con le parole di Scalfari.
Dopo questo applaudito excursus storico – politico è stata la volta del professor Chiola che ha steso un’interessante, per quanto molto tecnica, analisi delle prerogative e dei limiti che la costituzione (sopratutto nell’artiolo 21) attribuisce a giornalisti ed editori, soprattutto in materia di cronaca giudiziaria, buoncostume e diffamazione a mezzo stampa. Chiola ha confermato che l’attuale normativa italiana è estremamente lacunosa perché, stando anche alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, non fa alcuna differenza fra stampa quotidiana, periodica e, al giorno d’oggi, online. Ci troviamo dunque in un’impasse che non può essere risolta appellandosi solamente alla giurisprudenza costituzionale ma deve per forza essere affidata prima al parlamento e poi all’Unione Europea. Date però le condizioni della commissione di vigilanza Rai, stretta in una morsa surreale da un oscuro notabile ex DC di nome Villari, dell’AGCOM e del governo attuali è assai difficile che giungeremo presto ad una conclusione di tutte le vicende, e gli scandali, correlati all’informazione italiana. Soprattutto per quanto riguarda la questione di Rete 4.
Roberto Zaccaria, ha, infine, concluso il giro di interventi ricordando i suoi anni passati alla RAI e riunioni fra direttori di testate che somigliavano più a ritrovi massonici che a incontri fra professionisti dell’informazione. Zaccaria ha puntato poi l’indice sulla totale mancanza di mercato nella TV italiana, ricordando che un giornalista come Biagi (epurato dall’ukase bulgaro nel 2002) in America avrebbe avuto infinite possibilità di reintegro in altre emittenti, cosa che invece in italia puntualmente non è avvenuta perché l’allora (ed attuale) presidente del consiglio di fatto controllava il 99% del sistema televisivo. L’unico 1% non controllato da Berlusconi è La7, di proprietà di Telecom, ma anche qui, per usare l’eloquente immagine di Zaccaria, il settimo canale è stato “strangolato nella culla” ed è costretto a sottostare a logiche di potere e di spartizione della pubblicità che gli impediscono di crescere. Secondo l’ex presidente RAI, infatti, i vari imprenditori ed i big spenders della pubblicità si muovono esclusivamente all’interno del recinto di RAI e Mediaset per una pura questione di ritorni politici. Facendo più pubblicità sulle reti del Biscione ci si può, in qualche modo, ingraziare il Presidente del Consiglio e, di conseguenze, ottenere appalti, sgravi fiscali e quant’altro. Questo intreccio malato è il vero cancro dell’informazione italiana e, purtroppo, la legge Frattini (che in qualche modo legittima il conflitto d’interesse) e soprattutto la Gasparri hanno di fatto messo un muro alle possibilità di riforma, confermando, di fatto, la situazione esistente e blindando gli interessi di Berlusconi e di una casta deviata del giornalismo.
La serata si è poi conclusa con gli interventi del pubblico ed una digressione molto interessante sul futuro della stampa online lanciata dall’intervento di un ragazzo che stava assistendo all’incontro.

4 pensieri riguardo “Mezzi di distrazione di massa

  • AlbertoS

    Bel post, deve essere stata una bella serata. Pero`, su Biagi avrei una precisazione: ha avuto delle possibilita` di reintegro come 20 puntate di approfondimento in seconda serata, e 10 in prima su Rai Uno, da lui rifiutate alla fine del 2002. Si convinse a ritornare in tv, su Rai Tre con Rotocalco Televisivo, solo nell’aprile del 2007.

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  • Nicolò

    Vero, però c’è da ricordare che Biagi, ai tempi dell’Editto fu cacciato con la qualifica di Direttore e, dunque, poteva decidere in piena autonomia la linea editoriale dei suoi programmi. Il reintegro sarebbe avvenuto con la qualifica di Collaboratore Esterno e dunque avrebbe avuto molti più lacci e costrizioni rispetto al lavoro sul “Fatto”. Senza contare che nella Rai di Gasparri e del Noce, sicuramente uno come Biagi si sarebbe trovato presto o tardi a combattere per la sua autonomia. Nel 2007, quando rientrò con RT, l’allora direttore di Rai3 gli concesse ancora tutte le prerogative proprie delle figure dirigenziali, ed infatti se non sbaglio era sia Direttore che Produttore Esecutivo che Conduttore del programma. E’ un po’ quello che sta avvenendo con Santoro che grazie alla sua posizione redazionale può bene o male lavorare indipendentemente da quello che pensa la dirigenza di Rai2 ed invitare Travaglio, Vauro e tutti gli altri.

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  • AlbertoS

    La qualifica di Direttore e di Collaboratore esterno attengono a due profili differenti. Per esempio, oggi Bruno Vespa e` un collaboratore esterno di Rai Uno, ma e` pienamente libero, fin troppo forse, di dettare la linea del suo programma, perche` ne e` direttore. Ora, la collaborazione esterna attiene al rapporto tra lavoratore ed azienda (televisiva in questo caso) ed influisce soprattutto sul trattamento economico, non sulla linea editoriale.Presumo, quindi, che Biagi nel 2002 avrebbe avuto lo stesso inquadramento di Vespa: collaboratore esterno, ma direttore del programma che avrebbe realizzato. Sembra inoltre che Biagi, anche all’epoca del Fatto, fosse un collaboratore esterno (ma sempre direttore del programma), perche` Santoro in una intervista (http://www.ilpiave.it/modules.php?name=News&file=article&sid=998) accredita Biagi e Luttazzi come collaboratori esterni anche prima del loro ritorno in tv. Infine, con Rotocalco Televisivo Biagi era direttore e non anche produttore, ruolo questo che l’avrebbe inquadrato in una posizione ben diversa con l’azienda. I produttori escecutivi erano infatti Rai Tre, nella persona del direttore di rete Paolo Ruffini e Tg3-Primo piano, nella persona di Antonio Di Bella.

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  • Nicolò

    Mah, non credo che il mancato reintegro di Biagi sia da imputarsi a mere condizionali economiche, al limite si potrebbe dire che, come Santoro, si era impuntato sul riavere la “sua” fascia oraria per poter continuare a fare il “suo” programma come l’aveva sempre fatto. Inoltre in un’intervista aveva anche affermato di essere più che soddisfatto della liquidazione ricevuta. Più che altro, ma questo è un pensiero mio, credo che Biagi fosse troppo orgoglioso per accettare un incarico visto più come un’elemosina che come una vera offerta di lavoro.
    Su RT faccio mea culpa, evidentemente ricordavo male…

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