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Giornalismo d’inchiesta o complotto mediatico-giudiziario?

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Si è conclusa ormai da qualche giorno la quinta edizione del Festival Internazionale del Giornalismo, che si è tenuta dal 13 al 17 aprile a Perugia. Appuntamento a cui Inchiostro, come negli anni precedenti, non ha potuto mancare.
Gli inviati che hanno partecipato a questa trasferta umbra hanno avuto modo di raccogliere molto materiale: articoli, interviste, video o semplicemente esperienze personali, che verranno pubblicati sullo speciale del prossimo numero di Inchiostro oppure su questo blog.
Non tutti i contenuti, però, saranno di nostra provenienza.  In quel di Perugia, infatti, abbiamo conosciuto Valentina, una ragazza che partecipava al Festival come volontaria e che aveva il compito di scrivere degli articoli, dopo aver seguito determinate conferenze, per il sito ufficiale.
Valentina Pagliacci studia Lettere classiche all’Università degli Studi di Perugia. È giornalista pubblicista dal 2008, ha collaborato per quattro anni (dal 2005 al 2009) con un quotidiano locale ed è in procinto di entrare nello staff di Radiophonica, la web radio dell’Università di Perugia.
Sperando che la collaborazione con Valentina possa continuare a lungo, pubblichiamo con piacere alcuni dei suoi articoli scritti in occasione del Festival.

di Valentina Pagliacci

La discussione di mercoledì pomeriggio sul tema del giornalismo d’inchiesta non poteva che trattare l’ultima notizia politica della giornata, ovvero l’approvazione della cosiddetta “prescrizione breve”. A discutere dell’argomento sono intervenuti Alessandro Campi, direttore di Rivista di Politica, Claudia Fusani de L’Unità, Peter Gomez, giornalista de Il Fatto Quotidiano, Luca Palamara, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gianluigi Paragone, conduttore de L’Ultima Parola su Rai2. Giuliano Giubilei, vice direttore Tg3, ha moderato gli argomenti e ha condotto il filo del ragionamento in una partecipata Sala dei Notari.
Subito il giornalista Giubilei ha chiesto a Luca Palamara un commento sul fatto del giorno, l’esito positivo della votazione sulla prescrizione breve. Il Presidente dell’ANM, rimasto all’incontro per poco tempo, vista la particolarità della giornata, ha brevemente spiegato i motivi per i quali i magistrati sono contrari a questa deliberazione, sostenendo che una presa di posizione in tal senso significa da un lato trasmettere un messaggio d’impunità e dall’altro anche un dire di no alle vittime del reato. «È una sconfitta dello Stato – esclama il Presidente dell’ANM-. Si tratta di una riforma contro il Paese, dettata da episodi contingenti legati a processi giudiziari esistenti. Le vere riforme che servivano per l’Italia non sono mai state fatte».

A richiedere un riordino radicale di questo settore è anche il conduttore de L’Ultima Parola, Gianluigi Paragone. «Noi ci innamoriamo delle parole, così come ci siamo innamorati della parola giustizia – esordisce Paragone -. Io vorrei una seria riforma, ma la vorrei radicale. Credo che la responsabilità del magistrato debba essere valutata in maniera diversa e che velocizzare i tempi del processo sia opportuno perché le vittime hanno bisogno di una risposta. Nei tribunali oggi si consumano tante micro-ingiustizie». Incalzato da Giubilei sul tema del rapporto tra i media e le procure, Paragone non nega che ci sia uno «scontro tra la magistratura e Berlusconi e sono i cittadini a pagarne le spese. I giornalisti ne sono dentro fino al collo. Diciamocelo: certe notizie attirano telespettatori e fanno comprare i giornali».
Luca Palamara a questo proposito sostiene che «il processo penale e l’informazione debbano scorrere su due binari diversi: non si può pensare di imbavagliare la stampa, perché sulle varie fasi del processo serve anche come garanzia per il cittadino di un corretto comportamento da parte del magistrato». Ma puntualizza anche che «sia necessario fare un discrimine tra gli atti non coperti dal segreto, ovvero quelli che sono divenuti pubblici dopo la fine del processo, per cui il magistrato è già uscito di scena, e gli atti coperti che, se divulgati, rischiano di pregiudicare lo svolgimento del procedimento stesso. Solo in pochissimi casi è avvenuta la pubblicazione di notizie segrete».
Prende poi parola Peter Gomez, esordendo con: «Io faccio il giornalista per raccontare la realtà come la vedo». Subito dopo, richiama alla memoria la storia recente della I Repubblica, l’affaire Tangentopoli che nel principio degli anni Novanta ha spossato il Parlamento italiano. «Nel 1992 l’indagine “Mani Pulite” ha mostrato un sistema politico profondamente corrotto che si reggeva sulle tangenti. Inoltre, ha svelato il grosso potere di ricatto di quella classe dirigente. Da allora i politici attuali, tranne che delle eccezioni, hanno operato per rendere inoperativa la giustizia, è scientifico. La maggior parte dei deputati è composta da avvocati, i quali conoscono bene le reali esigenze e le problematiche del sistema giuridico. Ma uno studio dell’Università “La Sapienza”  ha rivelato che questi avvocati, una volta entrati in Parlamento, hanno visto aumentare il proprio reddito del 27% in media». Gomez a questo punto inizia una riflessione sul fatto che Silvio Berlusconi sia  proprietario di media e su come abbia saputo usare questo potere nei confronti degli avversari politici. In conclusione, il giornalista de Il Fatto Quotidiano esclama che «in Parlamento oggi abbiamo 20 deputati imputati, 80 salvati da prescrizione o sotto inchiesta e 50 avvocati penalisti che li difendono: il risultato è questo qua».
Con Alessandro Campi, direttore di Rivista di Politica, entra nel dibattito la parola complotto. Non prima, però, di un breve commento sul caso Fini e la rottura di questo con la maggioranza, annotando come lo «abbia colpito in quei giorni la tempistica e l’accanimento contro il politico dissidente, ovvero la simultaneità con l’assemblea di espulsione dei finiani dal Pdl e l’insistenza della notizia. Si sono susseguite 30 prime pagine per 30 giorni che, a mio parere, avrebbero meritato fatti di maggior spessore».
«La questione del complotto è diventata una mentalità in Italia – sostiene Campi -. Ricordo quando nel novembre 1963, subito dopo l’uccisione di Kennedy, uscì in America un libro dal titolo “Lo stile paranoico della politica americana”. L’opera parlava di una politica concepita come un complotto permanente. Ecco, io penso che l’Italia sia caduta in questo giochetto, che è un giochetto trasversale alla destra e alla sinistra, e il nostro Presidente del Consiglio sia vittima di una sindrome paranoica. Il teorico principale del Berlusconismo, a mio parere, è Cicchitto. Per l’esponente del Pdl quanto avvenuto nel 1994 non è stata un’operazione di pulizia necessaria ma si è trattato di un golpe. Nella lotta politica ognuno accusa l’altro di complottare ai propri danni. L’idea del complotto: in questa chiave può essere spiegata la politica italiana». Campi evidenzia anche come esista una tendenza a leggere la storia del nostro Paese con questa chiave. «Si ritiene che la storia si sia sviluppata su un duplice livello: da una parte l’Italia legale, dall’altra l’Italia dei segreti innominabili».
Claudia Fusani, l’unica donna presente al panel discussion, si è concentrata su un particolare di non lieve importanza: se non fosse stato Berlusconi il protagonista di questi processi non ci sarebbe stato tutta questa rilevanza mediatica perché «se fosse stato coinvolto nel caso Ruby un cittadino qualunque sarebbe già condannato. Per quanto riguarda il caso Mills, se Berlusconi non si fosse fatto ben tre scudi, sarebbe stato un processo già concluso. Tutti e 21 i procedimenti giudiziari del Premier hanno dietro un reato per i quali bisogna verificarne la sussistenza. È stato fatto di tutto per evitare un giudizio. Se si guarda al passato, ad esempio al processo per mafia, Andreotti si è fatto processare, ha risposto, stringeva la mano ai magistrati. Io ritengo che sia  questi ultimi che i giornalisti stiano facendo il loro mestiere, mentre c’è qualcuno che non rispetta il ruolo».
Chiude Gomez cercando di rispondere alla domanda iniziale: qual è il limite per cui il giornalismo d’inchiesta non rischia di entrare nel complotto mediatico-giudiziario? «Ruby – precisa Gomez – prima di essere un caso giudiziario, è stata un caso giornalistico. Io sono stato uno dei primi a pubblicarlo, La Repubblica ha seguito la notizia. Questo fatto dovrebbe suscitare un dibattito, in Italia non accade nulla per via del controllo che ha la politica dei mezzi d’informazione. È noto come la gran parte dei cittadini si informi tramite la televisione, ma i telespettatori di Rete 4, Italia 1 e del Tg1 non sanno nulla. La gente ha il diritto di non comprare un quotidiano, ciò non toglie che non abbia il diritto quando torna a casa la sera dopo una dura giornata di lavoro di essere informata correttamente, di vedere un telegiornale che assomigli alla realtà». In conclusione Paragone ribatte sostenendo che Mentana ha portato audience ad un canale di nicchia come La7 proponendo un nuovo modo di pensare un Tg.

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