#IJF14 – A qualcuno piace Cracco (sì, a tutti)
di Elisa Zamboni
Il buon cibo sulle tavole italiane non è mai mancato, eppure è solo recentemente che i media hanno scoperto la grandissima potenzialità di programmi di cucina come Hell’s Kitchen e MasterChef, portando i fornelli di moda. A tal proposito in Viaggio nella storia e nella tradizione della migliore cucina italiana del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Inchiostro ha avuto l’opportunità di assistere all’intervista di Barbara Sgarzi a Carlo Cracco.
GIORNALISTI E CIBO – «Ora tutti parlano di cibo» ha affermato come prima cosa lo chef «ma una volta i giornalisti erano gli unici critici: solo chi lavorava in un giornale era autorizzato a parlare di un ristorante, perché era lì che si facevano i meeting. Conoscere la qualità del ristorante era un’ulteriore elemento per tenere la situazione sotto controllo. Con internet tutti sono liberi di scrivere: non so se sia negativo o positivo ma di fatto vi è un magma, un movimento che si fa fatica a circoscrivere e a definire o no autorevole». Basti pensare a TripAdvisor: «Uno degli attori più forti ma non unico e non bisogna prenderlo come riferimento!».
LIBRI DI CRACCO – Se vuoi fare il figo usa lo scalogno è un libro di ricette trattate con linguaggio diverso, «facile e fruibile» come dice lo stesso Cracco. «I cuochi non sono riconosciuti come grandi compositori di ricette: al 90% le loro ricette son sbagliate o mancano dei pezzi, ma perché è la parte più noiosa fare la ricetta. Tu la ricetta ce l’hai in testa: la fai e subisci modifiche con il cambio di stagione, di fornitore, di disponibilità dei prodotti al mercato. La ricetta non è mai definitiva. Il libro dello scalogno nasce con la voglia di fare un libro diverso, più facile da leggere, da fare, da capire, con ricette perfette e di tre gradi». Questo libro, come anche il successivo, non si limita però alla ricetta nuda e cruda ma aggiunge una sorta di introduzione storica per aiutare a capire l’origini non solo della ricetta ma anche del gusto italiano.
A qualcuno piace Cracco si focalizza sulla cucina regionale ed è, a parere dello chef, più difficile del precedente. «Ho preso il meglio della cucina tradizionale e le mie preferenze, tenendo talvolta l’originale perché sommamente perfetto oppure modificando». Raccontare una ricetta è raccontarne l’origine, la storia: «c’è una scarsa tutela della tipicità italiana all’estero e passa il concetto che siamo generosi e magnanimi, quindi gli altri possono appropriarsi delle nostre creazioni».
MASTERCHEF E HELL’S KITCHEN – A MasterChef, in trasmissione, i piatti non arrivano caldi: non si perde parte della bontà del piatto? «Voi vedete il riassunto di puntata: sono 4 minuti. Noi ne viviamo 45. I concorrenti cucinano con l’ansia delle telecamere addosso e dei giudici che osservano: se il piatto è buono o pieno di errori lo si vede da subito, dalla preparazione. L’assaggio serve a farlo capire a casa. Poi è chiaro, i primi piatti saranno caldi, gli altri freddi ma noi giudici abbiamo memoria storica di ciò che abbiamo osservato durante la preparazione e ci scambiamo opinioni: non abbiamo mai sbagliato nel valutare un piatto anche prima di assaggiarlo».
A detta di tutti sei sempre stato il più cattivo a MasterChef, come ti difendi al riguardo? «Io non sono cattivo, sono severo. La severità è giusta. E cosa lo dico a fare a voi giornalisti? Voi siete stronzi pazzeschi, come i cuochi e tutti coloro che lavorano bene. La severità è dei professionisti».
E a proposito di Hell’s Kitchen, come ti trovi? «Mi trovo bene, altrimenti non lo farei. Riesco a essere spontaneo perché sono in un ristorante: lì c’è un pubblico vero, clienti veri, i piatti vengono fatti e serviti. La chiave è che questi ragazzi devono preparare un menu che gli spieghi velocemente e il giorno dopo devono saperlo replicare per sessanta persone vere che aspettano di mangiare. È davvero complicato all’inizio, poi man mano diventa più facile. Chi vince, vince un posto di lavoro dove fa lo chef in un locale prestigioso. Ci vuole più severità rispetto a MasterChef. È una bella vetrina quindi è un gioco fino a un certo punto. È un’opportunità e prima arrivi meglio è per imparare il mestiere: pochi lo dicono ma in cucina l’età media è sotto i 30 anni perché è dura starci. Si lavora tantissime ore, fino a tardi, devi sopportare lo chef. Più uno arriva presto, più facile è arrivare a un traguardo. Chi arriva in ritardo deve recuperare il gap».
PERSONAL EXPERIENCE – A te è mai capitata una serata storta? «Non sono mica superman! Storte ce le hanno tutti, basta nasconderle bene. Quando una ricetta non riesce non la dai a tutti, la fai sparire. È normale! Noi in cucina siamo in sedici a lavorare, basta che un anello della catena non funzioni, interrompe l’andamento e poi bisogna correre a recuperare. L’importante è capirlo! Come reagisco? Beh, io parto sempre sereno, sono tranquillo… Poi ci metto due nanosecondi a incazzarmi!».