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Ezio Bosso: la musica come atto d’amore

«La musica non è di nessuno, la musica è di chi mette le mani (su uno strumento), di chi la scrive, di chi la ascolta. […] La musica è nostra, non è di uno. È questa la magia, chi scrive la musica la scrive per lasciarla a qualcun altro. È un atto d’amore».

Dita inarcate, non convenzionali, rese riconoscibili dai tanti anelli, che si muovono velocemente sulla tastiera di un pianoforte. Corrono su quella fila di tasti neri e bianchi leggerissime ma sicure, senza mai scivolare. Lo scivolone, lo “sbrodolamento” sulla famigerata battuta ostica è una delle paure più grandi di un musicista, perché fa perdere improvvisamente l’attenzione e la concentrazione del pubblico e dell’artista stesso. Rompe l’armonia. Paura tanto grande quanto quella di scordarsi le note del brano che si sta suonando e di non ritrovare quella battuta sullo spartito. Il maestro Ezio Bosso lo spartito non lo usava mai, il pentagramma lo aveva stampato nella testa e non sbagliava una nota. E se la sbagliava per colpa di quelle dita ribelli, ne faceva una perla speciale all’interno della sua esibizione.
La sua era una mente brillante, una di quelle destinate a lasciare il segno nel ricordo di tutti, anche di chi la musica, soprattutto quella classica, non se la fila per nulla. Era impossibile rimanere indifferenti alla sua persona e al suo talento musicale.

Il musicista e l’essere umano

Ezio Bosso era un pianista e un direttore d’orchestra, ma soprattutto un essere umano con una passione sconfinata e incommensurabile per la musica, della quale si era innamorato da bambino e che gli ha “salvato la vita”, nonostante ci abbia lasciato all’età di 48 anni.
Sorride ricordando in un’intervista televisiva l’incontro travolgente che da piccolo lo sconvolse e convinse a voler fare della musica la sua strada. Fu “l’incontro” con il genio di Beethoven e la sua Sonata in Do diesis minore (Al chiaro di luna) che il suo insegnante di pianoforte gli proibiva di suonare perché troppo complessa per lui che era solo un bambino. Ezio invece, comprando di nascosto la partitura, l’aveva studiata e ha suonato quel brano per il resto della sua esistenza con la stessa emotività e la stessa luce negli occhi. Chiunque sia entrato in contatto personalmente o anche solo attraverso uno schermo con il maestro Bosso, di lui ricorda probabilmente prima di tutto il sorriso, sintomo di un entusiasmo invidiabile verso la vita. Una vita che non gli ha risparmiato difficoltà: nel 2011 subì un’operazione per l’asportazione di una neoplasia e fu in seguito colpito da una sindrome autoimmune che lo fece ammalare di una patologia neurodegenerativa. Ciò che però di lui colpiva era la capacità di trasformare i problemi in piccole opportunità pur di poter continuare a gioire della musica: come quando raccontava che se un giorno non riusciva a muovere un dito, ne utilizzava un altro, scoprendo magari un suono nuovo. Con il passare degli anni la malattia lo ha portato ad avere difficoltà sempre maggiori a camminare, a parlare e a muovere le dita che alla fine del 2019, quasi completamente compromesse, lo hanno obbligato a smettere di suonare. Quel suo annuncio doloroso a settembre aveva gettato il suo pubblico nello sconforto, ma è stato proprio smettendo di suonare che il maestro ha regalato il suo insegnamento più grande. Ha dimostrato che non sono solo le dita che si muovono sulla tastiera di un pianoforte, lungo i capotasti di una chitarra, sui pistoni di un ottone, sulle corde di un’arpa, a fare di qualcuno un musicista. Bensì la sua sensibilità, la sua passione, la sua creatività. Il maestro Bosso non ha mai smesso di essere un musicista e, pur esibendosi meno, non ha cessato di scrivere, di raccontarsi e raccontare l’importanza di portare la musica ovunque.

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(foto da FareMusic.it)

Perché, lo si ribadisce spesso, quello della musica è un linguaggio universale e senza dubbio il modo in cui Ezio Bosso lo ha utilizzato ha cambiato chi lo ha conosciuto. Basta pensare a tutte quelle volte in cui si è chinato, seppur a fatica, sul pianoforte facendo dimenticare a chi lo ascoltava quale fosse la sua situazione fisica; a tutte quelle in cui ha parlato per raccontare i suoi brani e le sue storie pur sforzandosi di articolare. Contro i tanti pregiudizi e le cattiverie ricevuti, ha dato prova del fatto che non è la condizione patologica di un individuo a definirlo ed essa non ha il diritto di sminuire ciò che fa. A chi sosteneva che fosse diventato famoso perché “un malato in carrozzina fa audience”, ha dimostrato che, quando inizia a suonare, l’incanto per la sua musica così sincera e delicata non lascia spazio ad altro.

Una vita a “stanze”: The 12th room

Dalle esibizioni nei maggiori teatri d’opera del mondo, alla direzione delle orchestre più prestigiose, alla composizione di brani che sono stati utilizzati anche in colonne sonore, Ezio Bosso si è dimostrato una personalità musicale eclettica. La sua vita, come spesso ha sostenuto, si è svolta come un viaggio ciclico attraverso delle “stanze”.

«C’è una teoria antica che dice che la vita è composta da dodici stanze. Sono le dodici in cui lasceremo qualcosa di noi, che ci ricorderanno. Dodici sono le stanze che ricorderemo quando passeremo l’ultima. Nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. E quindi si può tornare alla prima. E ricominciare».

La dodicesima stanza lui ha deciso di musicarla nel 2015, componendo il suo primo disco da solista, “The 12th room. Un piccolo e intimo itinerario alla scoperta dei momenti della vita che lo hanno portato a diventare quello che era. Un lavoro prezioso in cui contemporaneo e classico si fondono. Un connubio perfetto in cui sulle sonorità tipiche della musica leggera intervengono Bach con la sua precisione scattante e matematica, Beethoven con la sua profondità dirompente, Chopin con la sua dolcezza e fragilità. Stanze che diventano veri spazi fisici in cui ciascuno di noi è invitato a entrare per conoscere e conoscersi; per rivivere la vita di un artista e allo stesso tempo scoprire qualcosa di più sulla propria. Un insegnamento, questo, che tra molti altri del maestro possiamo far nostro: la musica è una necessità da “distribuire”, rende umani, rende uguali, dà speranza e insegna la vita.

E, soprattutto, non si ferma mai: anche dopo la scomparsa di un artista la sua musica continuerà ad emozionare insegnando a chi la ascolta a vivere.

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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