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Di Anna Magnani e di come rivoluzionò il cinema

Nel 1946, in una saletta di Cannes, il grande storico del cinema Georges Sadoul si imbattè casualmente in Roma città aperta di tale Roberto Rossellini. Come racconta Gian Piero Brunetta ne Il Cinema Neorealista Italiano:” Sadoul non poteva fare a meno di ricordare la Magnani dai capelli sparsi, gli occhi neri, la bocca mobile e sensuale”. Un punto fondamentale del grande successo neorealista appare quindi, da subito, la recitazione. Un uomo, un francese, rimase colpito innanzitutto da un corpo attoriale, prima che da altro. È l’azione, la performance di Anna Magnani ad arrivare immediata ai cuori di tutto il mondo, usando l’unico linguaggio che è da tutti comprensibile, quello del corpo. L’amalgama degli interpreti fissata da Andrè Bazin in Che cosa è il cinema? è evidente nel film di Rossellini, in cui la scelta per la protagonista femminile cade su un’Anna Magnani che veniva dal mondo dell’avanspettacolo e del canto realista e che si trovava a vivere un secondo inizio di carriera. Se il neorealismo fu un nuovo inizio per il cinema mondiale, lo fu anche per la recitazione e per la figura dell’attore. Assieme ad attori non professionisti, “presi dalla strada”, si amalgamavano attori “di genere” che venivano decontestualizzati e acquisivano un nuovo modo di recitare. La figura del regista e la sceneggiatura tenevano unite le diverse anime del cast, in modo che i non professionisti trovassero ispirazione nell’esempio dei professionisti, e i professionisti trovassero nei non professionisti quella naturalezza dei gesti, quella spontaneità delle espressioni che caratterizzavano gli Italiani del dopoguerra, i quali portavano ancora addosso il dolore e la paura vissuti fino a poco tempo prima. Dunque un regista che sprona, dei colleghi anomali che danno l’esempio e una sceneggiatura, ferrea nei suoi punti cardine, che non lascia spazio se non alla visione del regista. È in questo sistema di contrappesi che nasce la meravigliosa interpretazione di Anna Magnani, che, nei panni di Pina, è chiamata a far rivivere la povera Teresa Gullace, donna romana uccisa dai tedeschi durante un rastrellamento. La Magnani disse che, uscendo dal famoso portone della casa popolare, poco prima di essere cinematograficamente uccisa dai tedeschi, improvvisamente ebbe la sensazione di vivere qualcosa di reale, perché il popolo lì riunito era proprio il popolo romano, perché i tedeschi erano tedeschi veri, perché le donne erano pallide mentre udivano i latrati dei soldati tedeschi. L’angoscia che l’attrice riesce a trasmetterci nasce tutta da questi elementi, dall’amalgama con interpreti presi dai palazzoni romani, dalle macerie ancora accumulate nelle strade, dagli occhi di bambini che hanno cominciato la loro vita in un clima bellico e terribile.

Ma dunque dove sta concretamente la forza di Anna Magnani? Sta nella rivoluzione neorealista, abbracciata completamente dall’attrice, consapevole di essere a una svolta della propria carriera, in cui è chiamata non più a intrattenere e far ridere un popolo martoriato, ma a rappresentarlo, ad esserne l’emblema. L’emblema di quella parte del popolo che non aveva ideologie politiche per cui morire, ma aveva la grande ideologia cristiana, fatta per vivere. La Magnani appare come una donna forte, capace di tenere insieme una famiglia, un palazzo e forse tutta Roma. Sulle sue spalle pesano i destini di anziani, di bambini, di uomini innamorati e ricercati. È Pina che, in mezzo alla guerra, coltiva il grande amore, sogna un futuro. Un futuro che le viene portato via una mattina, su un camion tedesco, tra le urla delle altre donne. Un futuro che Pina non accetta di lasciar andare, e quindi lo insegue, correndo, liberandosi dalle manacce dei tedeschi e da quelle amorevoli del suo confessore, l’altro attore “amalgamato” Aldo Fabrizi. L’urlo straziante e sempre più intenso “Francesco, Francesco, Francesco!” resta nelle nostre orecchie per sempre, mentre la corsa resta nei nostri occhi. Bastano immagini semplici, suoni semplici, un solo sparo, forse due, e Pina-Teresa-Anna cade a terra. Una e trina, trina e una. In lei muoiono tre donne contemporaneamente e lì si compie il miracolo del neorealismo: non stiamo guardando un film, e nemmeno un documentario. Siamo lì, abbiamo visto tutto, e non possiamo farci niente; come bambini, saremo sempre perseguitati da quella visione, perché in quel momento Anna Magnani era tutti noi, correva per tutti noi, per salvare un sogno. Ma il traguardo della corsa non è la morte, è la pietà. La proviamo tutti, la mette in pratica Don Pellegrini: Anna Magnani muore tra le sue braccia, come un alter christus femminile che capovolge la pietà e mutua, lei madre, il ruolo di martire attribuito a Gesù, figlio.

Pina entra in scena durante una rivolta del pane e appare subito come una delle fomentatrici, una capopopolo dal fisico squadrato, possente, coi capelli raccolti della donna che non ha tempo da perdere, con la parlata romana di chi si sta arrangiando e fa quel che può. La Magnani non si ferma a recitare, non fa percepire allo spettatore di aver un copione, è una donna italiana, pronta a lottare e faticare nonostante sia incinta. Lei, novella lupa capitolina, lotta per il pane, difende il figlio nato e il figlio nascituro, difende quelli che saranno il futuro di Roma. Strattona e grida “Ma va’ ammorì ammazzata!” alla proprietaria del forno, che chiama il brigadiere in aiuto. Questo è un momento toccante, perché dà il La alla scena successiva: il brigadiere, troppo amico di Pina per fermarla, la accompagna fino a casa e si offre di portare di sopra la pesante borsa piena di pane e, proprio in questo momento, Pina diventa non solo madre dei suoi figli, ma madre di un uomo adulto, a cui è pronta a regalare due pagnotte, percependo la fame che l’ufficiale sta provando. Anna Magnani è, ancora una volta, profondamente umana. Un fulcro della storia che agisce per lo più dall’interno del palazzo, dalle scale, dai pianerottoli. Intesse relazioni, mantiene contatti, in due passi è sul pianerottolo di casa e chiama il figlio Marcello così che scenda e chiami Don Pietro, perché l’ingegner Manfredi ha bisogno di parlarci. Anna Magnani è come una sorta di centralino telefonico silenzioso e nascosto ma, malgrado il ruolo “partigiano”, è una donna che si scusa per il disordine in casa, una madre che sgrida il figlio. Le urla sguaiate, l’inflessione romanesca, le scale come cardine scenografico, gli altri inquilini del palazzo che passano davanti alla cinepresa durante la conversazione tra Pina e Manfredi: non c’è forse, in tutto questo, l’Italia in tempo di guerra? Non è questa l’Italia che ancora oggi si può vivere, se la si cerca?

Diceva Don Pietro:” Oh, non è difficile morire bene: difficile è vivere bene”, e mi pare giusto dire che il neorealismo sia duro a morire e non abbia difficoltà a vivere ancora oggi, anche grazie all’apporto segnante del corpo attoriale di Anna Magnani, che ha colpito i registi di tutto il mondo, da Truffaut a Scorsese, da Coppola a Wenders, per arrivare, a mio parere, fino al realismo esasperato di Kim Ki-duk.

Come recita Anna Magnani? Dicevo, col corpo. Con tutto il corpo. Dagli occhi infossati, grandi e castani che sono ora fissi, ora disperati, ora allegri, per arrivare alle mani, che costituiscono il vero baricentro della figura di Pina per l’intera durata del film. Le mani “fanno”, nel senso che compiono azioni, lavorano, ma, soprattutto, proteggono. Pina ha le mani in grembo e protegge perennemente il figlio che verrà. In qualsiasi momento, qualsiasi cosa stia facendo, Pina non smette di essere madre, di essere la lupa che protegge i figli.

Pina è anche figlia. Di fronte a Don Pietro, si lascia andare, si confessa, dice di vergognarsi perché aspetta un figlio fuori dal matrimonio, lei che è vedova. Sente di aver vissuto in modo sbagliato e aver fatto cose che non doveva fare. La Magnani, mentre dice queste cose, appare sinceramente dispiaciuta, perché la sua religiosità non viene mai meno e le mette di fronte i proprio peccati. Gli occhi della Magnani non sono più fissi, sembrano quasi evitare il contatto visivo col sacerdote, ma si risvegliano quando Pina dice “Cristo nun ce vede” e di nuovo tornano a guardare in basso o verso un punto imprecisato quando Aldo Fabrizi afferma che forse è colpa degli uomini che non hanno agito bene, che hanno peccato. Un tripudio di emozioni attraversa questa donna fortissima, questa madre, questa fedele, questa innamorata. Anna Magnani attraversa un fiume di stati d’animo e lo fa suo, lo guada. Ricordando assieme a Francesco i giorni del loro primo incontro, gli occhi diventano grandi, lucidi, guardano dal basso verso l’alto e, all’improvviso, la donna diventa ragazza, sogna ancora e si aggrappa col braccio a quell’uomo che rappresenta il futuro, un futuro da difendere con tutti i mezzi. “St’inverno sembra che non debba finì mai” dice Pina, e le risponde Francesco: “Finirà, Pina, finirà. E tornerà pure la primavera, e sarà più bella delle altre, perchè saremo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo”. È a questo punto che Pina piange e afferma di non avere mai paura. Non avrà paura di inseguire il camion che distruggerà la sua vita, che distruggerà la speranza di entrambi di vedere la primavera. C’è una realtà troppo forte e brutale a tarpare le ali di chi sogna. La primavera ci sarà, ma sarà per i bambini, testimoni di un fatto realmente accaduto, come noi, che ci porteremo sempre addosso momenti confusi, il rumore di tacchi sull’asfalto, poche parole urlate e una mano alzata, come volesse afferrare il camion e fermarlo. È questa una Magnani che rappresenta il popolo, in modo mai volgare e sempre dirompente, con entrare in scena che la mettono perennemente al centro delle nostre attenzioni, sia quando è forte, sia quando è fragile. È colonna portante del film e anche ariete di sfondamento: quando supera i cordoni di tedeschi che le vogliono impedire la sua ultima corsa verso Francesco, sentiamo la forza incontenibile che viene dalle radici di un popolo, vediamo la bassezza morale dei tedeschi che non può nulla contro un popolo che, nella sconfitta, ha già vinto, grazie ai propri valori. Si libera dalle mani amiche e nemiche e irrompe sulla scena, sulla strada, con le calze rotte e un fazzoletto bianco al collo, con un dinamismo che solo un oggetto inanimato, un proiettile, ha potuto soffocare. L’immagine-fatto è compiuta: una tale forza espressiva, mai distante e sempre viva, ci resta impressa e crea in noi il riflesso di un trauma, una nuova consapevolezza ereditata. Una memoria collettiva.

Ci restano i “Pina! Pina!”, i “Francesco! Francesco! e quel “Teresa!” gridato poco prima del fatidico sparo (o spari?) che compie la metamorfosi finale tra Anna Magnani, la Persona Pina e la donna che ha ispirato l’intero primo blocco del film, Teresa Gullace.

Il cerchio si chiude. Il cinema è segnato per sempre.

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