Attualità

Barbie, CETA e altri oggetti indesiderati

Vi siete mai chiesti il perché di quest’esigenza sempre più impellente di concludere trattati commerciali sovranazionali? Di ratificare tutti questi CETA e TTIP? Vi siete mai interpellati cosa comporti la possibilità di trovare i mango o gli avocado comodamente sullo scaffale della frutta, tutto l’anno?
Il noto economista Jeremy Rifkin risponderebbe: l’azzeramento del costo marginale, cioè quello necessario alla produzione e alla commercializzazione del bene, (per capirci, se produco e vendo Barbie, quanto la differenza tra il costo di produrre 100 Barbie, rispetto che produrne 99: come potete ben capire, è minima e ininfluente)
Ma cosa c’entra tutto ciò coi nostri trattati commerciali transatlantici?
Questo fenomeno, a cui abbiamo largamente assistito da almeno vent’anni a questa parte, è causato dal continuo progresso tecnologico applicato ad una crescente produttività non correttamente retribuita.
Esso prevede, tra l’altro, la riduzione del profitto, la concentrazione della ricchezza nelle mani di chi può assicurare maggiore efficienza ai mercati, e la scomparsa dell’inflazione (dettagli per gli addetti ai lavori). Il potere d’acquisto dei cittadini diminuisce (io, cittadino, posso permettermi, a parità di reddito, una minor quantità di beni acquistati) , ma per “rimanere in corsa”, non modificando il valore del PIL, (e qui veniamo al nocciolo della questione!) si assiste all’entrata in gioco del cosiddetto “effetto Regina Rossa”(tratto dal capolavoro di L. Carroll, Attraverso lo specchio) ; cioè alla necessità costante di produrre, arrivando persino a raddoppiare la produzione e i consumi, pur di rimanere nella situazione ottimale, tralasciando invece problematiche come l’occupazione o il potere d’acquisto.
Tutto ciò genera, inevitabilmente, problemi di sovrapproduzione o ridistribuzione («ho prodotto troppe Barbie,a chi le vendo ora?») ; ed ecco che veniamo al punto: la soluzione dettata dagli “amanti del gioco”, che non possono minimamente mettere in conto un eventuale fallimento, è imporre mercati sovranazionali, (CETA o TTIP per l’appunto), in modo da allargare il bacino da cui attingere consumatori.
Insomma, questi accordi sembrano risultare, se analizzato adeguatamente, un ulteriore occasione per preservare gli interessi dei grandi produttori, delle multinazionali ad esempio, le quali potrebbero accedere anche alla privatizzazione di beni di consumo pubblici.
A chi obietta che possono invece rivelarsi utili per uscire dalla crisi globale senza richiudersi nei protezionismi nazionali, ricordo che nel nostro caso specifico, il settore economico italiano è composto per più del 90% da piccole o medie imprese (<100 dipendenti). Risulta perciò difficile pensare a come la piccola azienda manifatturiera PIPPO&PLUTO dell’alta Valle Cervo possa beneficiare di questi incentivi a scambiare con Canada o USA. Semplicemente perché il più delle volte non la fa proprio, o se lo fa, non lo fa in maniera massiccia come la Nestlé o la Monsanto, (per fare due nomi a caso che sicuramente trarrebbero giovamento da un simile accordo).image
Senza contare che, nel caso specifico, il CETA prevede, in primo luogo, l’abbattimento di barriere tariffarie e non. Per barriere tariffarie s’intende la rimozione di circa il 99% dei dazi doganali finora presenti tra i due paesi; per barriere non tariffarie si intende invece tutta quella serie di certificazioni di qualità alimentare, tutela ambientale ecc., che spesso e volentieri risultano d’impaccio al libero commercio.
Infine, punto cruciale dell’intesa, è l’istituzione di arbitrati extragiudiziali che permettano alle aziende private di citare in giudizio uno stato, qualora quest’ultimo promulgasse leggi che ostacolino gli interessi delle multinazionali stesse (non è previsto il contrario). Così facendo si equipara al livello di uno stato nazionale sovrano la volontà di un’ azienda privata. Giusto per far rivoltare il buon Hobbes due o tre volte nella sua tomba del Derbyshire.

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