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LA SVOLTA OBAMA

di Irene Leonardis 
Sono trascorsi alcuni mesi dal conflitto a Gaza che ha aperto il 2009 con oltre mille e trecento vittime. E ancora si cerca di trovare un accordo per stabilire la pace in quel Medio-oriente vessato da conflitti e stragi pluridecennali.

Il 19 gennaio si è giunti finalmente ad una tregua, ma intanto il clima politico è diventato acceso alimentando odi e contrasti all’interno degli stati del mondo. Le comunità arabe d’Italia e di Europa sembrano ancora più chiuse in loro stesse, in apparente conflitto con l’Occidente intero (ricordiamo le manifestazioni e gli scontri in piazza). In questo quadro la mediazione e il dialogo appaiono sempre più indispensabili e allo stesso tempo più lontani. E soprattutto diventa necessario sottrarsi a pregiudizi patriottico-religiosi e cercare un terreno comune su cui costruire una convivenza pacifica e costruttiva, arrivando alla creazione di due stati indipendenti, sicuri nei propri confini e soprattutto riconosciuti dagli altri stati del Medio Oriente. Domani la pace potrà essere raggiunta  – come già aveva rivelato Olmert in un’intervista del 29 settembre 2008 al quotidiano Yedioth Ahronoth – solo se Israele smantellerà le colonie ritirandosi entro i confini del 1967 vista la grande crescita demografica degli arabi che in pochi anni costituiranno la maggioranza della popolazione nei territori di Israele, Gaza e Cisgiordania.

La questione dei confini resta di vitale importanza non solo per la Palestina, ma anche per il vicino stato siriano. Dall’elezione di Barack Obama, il presidente siriano Bashar al Assad ha rivelato di voler trovare una mediazione con Washington e con Israele (rimando alla lettura della bella inchiesta di Seymour Hersh comparsa su Internazionale lo scorso 17 aprile). Infatti un’apertura all’occidente potrebbe procurare al suo stato un incremento del turismo e del commercio e, conseguentemente, un innalzamento delle condizioni di vita medie. Fiducioso nell’intervento del nuovo presidente statunitense, Assad si è dichiarato quindi disposto ad una collaborazione a patto della restituzione dei territori del Golan. Conquistate dagli israeliani durante la guerra dei sei giorni (1967), le alture del Golan rappresentano un’importante riserva idrica in quanto si affacciano sul Giordano e sul Mar di Galilea. Ovviamente la cessione di questi territori appare difficoltosa (lo sgombero dei coloni israeliani richiederebbe dai 3 ai 5 anni) ed è osteggiata dalla componente di estrema destra presente nella nuova coalizione di governo di Netanyahu. Cionondimeno un accordo tra Israele e Siria significherebbe un indebolimento dell’alleanza con Teheran (e il conseguente isolamento di quest’ultima). O, qualora Assad volesse mantenere entrambe le alleanze, inevitabilmente anche l’Iran si troverebbe coinvolto in una nuova politica di mediazione dovendo perciò rinunciare alla sua attuale posizione nei confronti dello stato israeliano.

Sempre in questo possibile scenario di accordo siro-israeliano, gli aiuti ancora oggi forniti dalla Siria ad Hamas e al gruppo sciita libanese Hezbollah dovrebbero essere interrotti.

Insomma, sia che si scelga come interlocutore privilegiato la Siria, sia che si decida di trattare con la Palestina di Hamas, la pace in Medio-Oriente sembra fortemente legata alla questione dei confini del ’67.       

Per noi europei resta la speranza che i partiti ultraortodossi israeliani inizino ad ascoltare le parole dei più moderati e lungimiranti, come il nostro Moni Ovadia – nostro perché italiano e perché insignito dall’Università di Pavia della laurea honoris causa in Lettere- che si è più volte espresso con preoccupazione riguardo alla situazione israelo-palestinese. Ovadia crede che una soluzione sia possibile e spinge “a spezzare la cecità di una visione ottusamente nazionalista e succube dei coloni più estremisti” e così a “trovare la via del dialogo anche con Hamas invece che pretendere di cancellare con la forza una formazione politica democraticamente eletta”(L’Unità, 16 gennaio 2009).

La risoluzione del conflitto tra Israele e i Paesi arabi appare ancora lontana, ma le parole di Assad e la nuova politica statunitense lasciano pensare che Obama rappresenterà un netto cambiamento rispetto al passato. La portata di questo cambiamento non è ancora chiara, tuttavia le forti attese che il presidente americano ha suscitato in Europa e in Medio-Oriente rappresentano di per sé una svolta epocale. 

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