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Ricordi di un futuro mai vissuto

Racconto di Matteo Costa – settimo classificato al Concorso Letterario “Vita Futura” 2023 

– Dammi la mano!

– Sì, come l’ultima volta, che mi sono inzuppato i pantaloni fino al ginocchio e quell’isterica di mia madre mi ha dato uno schiaffo per ogni starnuto che facevo…

–  Fidati di me!

–  Mmh, va bene…

–  Ora appoggia il piede su quella roccia, ma fa’ attenzione, è piuttosto levigat… Splash!

–  Ma che cazzo Richi, anche stavolta!

–  Ah, e ora sarebbe colpa mia?! Ti avevo appena finito di dire che la roccia era scivolosa!

–  Fottiti!
Avevo entrambe le gambe fradicie fino al ginocchio. Di nuovo.

– Beh, diciamo che voi due fate proprio una bella coppia, ricordatemi di non affidarvi nulla di importante in futuro.
Non aveva ancora finito la frase, che io e Richi stavamo prendendo Fabio per le braccia e lo stavamo gettando in acqua.
Splash!
– Fanculo! Siete degli idioti!
Con senno di poi, forse non aveva del tutto torto.
Risalimmo rapidamente la chiusa del torrente, cercando riparo dal sole cocente che faceva ribollire le meningi come in una caldaia. Arrivammo finalmente al nostro rifugio, la nostra base segreta, come ci piaceva definirla: in una piccola radura nelle vicinanze dell’ultima casa del paese, avevamo disposto una serie di assi di legno così da simulare una recinzione fortificata, dalla quale riuscivamo ad avere il controllo su tutti i punti di accesso limitrofi.
Io ero la vedetta, armato del mio fedele arco da indiano, mentre Fabio e Richi i soldati di fanteria. Quel giorno, tuttavia, eravamo ancora tutti zuppi, per cui decidemmo di rimanere momentaneamente nella parte antistante il nostro nascondiglio, così da poter godere della tiepida brezza che soffiava tra gli alberi e da monitorare in prima linea le eventuali scorribande dei banditi pellerossa che popolavano quelle zone.
Risvoltai i pantaloni fin sopra il ginocchio e mi tolsi le scarpe, sperando di evitare che i piedi bagnati mi causassero il raffreddore, di nuovo.
Chi la voleva sentire mia madre lamentarsi tutto il giorno per qualche starnuto e chi voleva mangiare quel tremendo brodo di gallina che mi faceva per accelerare i tempi di guarigione…
Di nuovo.
Tutto d’un tratto, qualcosa si mosse tra i cespugli. Fabio e Richi si erano già appisolati, dopo aver appallottolato le loro felpe a mo’ di cuscino. Non potevo svegliarli, questo avrebbe potuto causare una reazione improvvisa da parte di quella cosa che si stava muovendo a pochi metri da noi.
Non potevo mettere a repentaglio l’incolumità dei miei due compagni, questa è la prima regola che ogni buona vedetta deve rispettare.
Decisi, quindi, di affrontare la situazione da solo: presi il mio piccolo arco da indiano e feci silenziosamente combaciare la corda con la piccola fessura intagliata nella parte posteriore della mia preziosa e affilata freccia. Tesi dolcemente l’arco, proprio come Ercole e Odisseo nei racconti di mio nonno, e rimasi in attesa di un nuovo movimento.
Niente. I minuti passavano inesorabili, eterni, immobili, ma non accadeva nulla.
Che fosse stata la mia immaginazione?

Proprio nel momento in cui stavo abbassando la mia infallibile arma, sentii nuovamente un rumore minaccioso, questa volta più vicino, alle mie spalle.
Trasalii.
Un alito caldo mi accarezzò il viso e asciugò le goccioline di sudore che mi si erano formate per la tensione. Non avevo mai sentito una brezza così calda attraversare la nostra radura.

Una mano mi afferrò per un braccio e mi strinse a sé, portandomi al petto e avvolgendomi dolcemente intorno al suo seno.
Che bel tepore…

Prima di andare a letto, mio nonno mi raccontava sempre una storia: un giorno era il turno della terribile Medusa e del suo sguardo che pietrificava chiunque la guardasse negli occhi, un altro quello di Bilbo Baggins e dell’anello del potere…
Potrei proseguire l’elenco per ore ed ore, ma non ho mai trovato gli elenchi particolarmente interessanti.

Al contrario, ho sempre provato una certa fascinazione per il racconto tratto dall’Iliade, in cui si narra del feroce duello tra Ettore, nobile principe dei troiani, e Achille, divino guerriero di Ftia.
Quante volte ho immaginato di essere uno spettatore presente sulle alte mura della fiera città di Ilio, credendo di ammirare il bagliore delle lame dei due guerrieri e dei loro possenti scudi; quante volte mi è parso di sentire le terribili urla delle sorelle del gentile principe troiano, una volta vista la carcassa del fratello venire trainata via dal carro del nemico, corrompendo la sua candida pelle; quante volte ho osservato meravigliato l’altero sguardo del vecchio Priamo, impassibile di fronte alla caduta del suo primo genito, costretto in un’espressione impassibile a causa della sua posizione.

Tuttavia, quello che mi ha sempre colpito di questa scena è un altro dettaglio: Ettore, poco prima di esalare il suo ultimo respiro, come a chi viene fatto dono di una vista profetica, scorge la vita futura di Achille, o meglio, la sua imminente morte.
Ho sempre ritenuto che questo fosse uno dei poteri più incredibili che si potessero desiderare: la capacità di osservare gli altri e conoscerne i ricordi e i vissuti futuri, fino all’ultimo istante. Fin da piccolo pensavo che questo mi avrebbe permesso di godere di ogni momento, rendendo preziosa ogni occasione. Perché in fondo non ci si rende conto del valore del nostro tempo fino a che non si riduce a brandelli e, in questo modo, si rischia di perdere quella che è la vera ricchezza della nostra esistenza.

La vita futura.

Quando mi risvegliai, mi sentivo tutto intorpidito. Mi strofinai gli occhi. La luce che scalfiva gli interstizi tra i rami mi dava un enorme fastidio, proprio come quando ci si risveglia da un profondo sonno. Con la coda dell’occhio, scorsi accanto a me il mio fedele arco, ma non vidi la freccia.
Che io l’avessi scagliata colpendo il mio bersaglio?

Mi girai di scatto, temendo di essere ancora in pericolo, ma il mio stato d’allarme scemò progressivamente: la radura era perfettamente tranquilla e i miei due amici erano ancora distesi sul prato, qualche metro più in là rispetto a dove mi trovavo.
Evidentemente, il mio era stato solamente un incubo particolarmente vivido o quella spaventosa cosa che la mamma mi dice sempre chiamarsi “paralisi del sonno”, in cui si immaginano cose strane, ma non ci si riesce a muovere.

Ma ormai ero sveglio, per cui non dovevo temere alcunché. Mi alzai lentamente sgranchendo le membra, che erano particolarmente assopite, quasi paralizzate; mi sentivo tremendamente stanco.
– Richi, Fabio, state bene? – sussurrai.

Non ricevetti alcuna risposta.
– Ragazzi?! – esclamai un po’ più forte, cercando di regolare il tono di voce.
Ancora silenzio.
Non ero del tutto sicuro che il pericolo fosse scampato, per cui preferii non alzare ulteriormente il volume del mio richiamo. Mi mossi di soppiatto, avvicinandomi ai miei due amici; mi appoggiai alle loro spalle e li scrollai, cercando di svegliarli.
Accadde tutto in un istante. Come in un flusso di infiniti bagliori, mi si presentarono innanzi le vite dei miei due amici: la loro scuola superiore, il loro primo amore, la loro prima volta, il loro matrimonio, la loro paternità, i loro figli, il litigio con la madre da parte di Richi, il pentimento per non essersi riconciliati prima della sua morte, il suicidio dello zio di Fabio, la depressione della madre, la loro vecchiaia, il tumore di Richi al pancreas, la gioia dell’essere diventati nonni, l’infarto di Fabio, la loro morte…
Mi scossi e vidi una sagoma che mi assomigliava in maniera preoccupante prenderli per mano e farli alzare, ormai anziani, da quel prato in cui avevano riposato a lungo, per anni ed anni.
Vidi una serie di ricordi che sentivo appartenermi, ma che non conoscevo, che non riconoscevo. Sentii un forte dolore al petto. Mi guardai il torace e trovai la mia micidiale freccia.
Finalmente me ne resi conto: quella era la mia vita.
Quelli erano i ricordi del mio futuro mai vissuto.

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