Concorsi

L’ultima storia

Racconto di Giovanni Pucinotti – sesto classificato al Concorso Letterario “Vita Futura” 2023

Fu più o meno da quando cominciai a distinguere il prima dal poi e a capire che potevo catturare il mondo nominandolo che mia madre iniziò a raccontarmi storie. Così fino a quattordici anni, quando mi raccontò l’ultima storia, vale a dire la storia di come sono nato.

Mio nonno era morto, ma lo sapevano solo i limoni. Lo vegliavano disteso per terra all’ombra delle loro foglie un caldo pomeriggio d’un estate che già si colorava d’autunno. I limoni all’epoca stavano all’angolo più lontano da casa del giardino e i loro fusti si allungavano e contorcevano come schiene nude di belle ragazze. Quel pomeriggio l’aria era ferma, solo il sole scaldava la terra con i suoi odori che salivano e bruciavano in cielo. Mia madre in quel momento era china ad annusare i girasoli sul margine opposto del giardino, davanti casa. Ricordava di quando suo padre li aveva piantati la prima volta quando era bambina e glieli indicava e li chiamava per nome. Lei voleva vederli seguire il sole e passava intere giornate a osservarli, ma sembrava non si muovessero mai, come gli occhi di mio padre che comparve nella sua vita con uno sguardo, immobile, piantato su di lei in una taverna del paese e lasciato in lei anche quando l’aveva abbandonata, sebbene con quel segreto della mia vita che le si schiudeva nel ventre. Sperò che avessi gli occhi di mio padre, quando si portò le mani sulla pancia gravida e rientrò in casa. Pochi minuti dopo udì l’urlo di mia nonna che tornava dal paese e presto si trovarono entrambe a urlare e piangere sopra il cadavere di mio nonno.

Fu allestita la camera ardente nel salotto. Vestirono a lutto, chiusero le finestre, tirarono le tende, si sparse la cenere a terra, sui muri e per tutta la casa. Quando tutto fu pronto, venne colata la cera calda sul volto del defunto che a poco a poco si raffreddò. Mia madre, mia nonna e alcune vecchiette del paese vegliarono mio nonno e aspettarono. Tra le preghiere, i rosari e le lacrime venivano ogni tanto gli uomini del paese a lasciare ricordi intorno al feretro: chi ricordi d’amicizia, chi di rispetto, chi d’uno e chi di mille incontri. Quando si sentivano liberati abbastanza, uscivano e talvolta facevano gli auguri a mia madre per il nascituro, per me. Rimanevano quindi solo le donne e i loro lamenti, che salivano e scendevano, finivano e ricominciavano senza mai fermarsi, come non si fermavano mai più di tanto gli uomini che passavano. Il terzo giorno, prima di chiudere il feretro, mia nonna tolse la maschera di cera dal volto di mio nonno e la pose con le altre, raccolte nell’armadio all’ingresso. Mia madre osservò le decine di maschere che si affacciavano dall’armadio e ricordò di quando suo padre gliele indicava e nominava uno ad uno parenti lontani e sconosciuti. All’epoca erano per lei solo volti pallidi e inquietanti, ma ora che suo padre stava con loro si accorse della forma degli zigomi che si ripeteva di maschera in maschera fino a lei, quando, guardandole, si portò una mano alle guance. Posò l’altra mano sul ventre gonfio e si domandò se anch’io avrei avuto gli stessi zigomi.

Un bambino in chiesa continuava a girarsi, sbuffare e guardarsi attorno annoiato. Forse era il figlio di un conoscente di mio nonno. Gli adulti, soprattutto i più anziani, seguivano la funzione con attenzione e tesi verso l’altare ripetevano insieme “credo” e “amen” quando dovevano, si alzavano e si sedevano sulle panche meccanicamente. Il prete raccontava del regno dei cieli con la stessa novità di migliaia d’anni di attesa dell’apocalisse e del giudizio di Dio. Mia madre rimaneva seduta, appesantita da me dentro di lei e dal feretro di suo padre di fronte. Si spiacque che non avrei mai conosciuto mio nonno e si domandò cosa le avrei ricordato di lui. Guardò verso la bara e pensò di sentire la presenza di suo padre più di qualunque altro momento della sua vita. Forse però sarebbero stati i suoi occhi a vestire il mio volto o i miei gesti della figura di suo padre. Allora si toccò le guance e si chiese di chi fossero i suoi zigomi. Intanto il prete raccontava delle meraviglie del paradiso, luminose, accecanti e sicure per quanti avessero seguito la parola di Dio.

Caricarono la bara nel carro funebre e la processione cominciò silenziosa. Si muovevano lenti per le strade vuote del paese. Passarono vicino ad una capanna di fango e paglia, dove era nato mio nonno. Fu poi la volta di una casetta di legno dove era cresciuto e quindi di una casa alta in mattoni dove aveva lavorato qualche tempo. La processione allora passò davanti alla locanda dove mia madre aveva conosciuto mio padre e presso il palazzo dove per qualche tempo aveva abitato mio nonno. Fiancheggiarono anche la fabbrica e il comune, l’ospedale e il parco fino al supermercato ai margini del paese. Da qui si avviarono verso il cimitero.

Poco prima di inumare la bara portarono una sedia a mia madre. Lei si sedette e allungò la testa per vedere quanto fosse profonda la fossa, ma non vide il fondo. La immaginò come una bocca umida e paziente, pronta a inghiottire la salma di mio nonno e poi come una culla tiepida e soffice pronta invece ad accudire la sua reincarnazione nel solo ricordo, come l’avrei conosciuto alcuni anni più tardi. Il prete benedì la bara e pronunciò alcune preghiere pietose che avrebbero aperto il paradiso al defunto, così quattro uomini con un paio di corde cominciarono a calare la cassa. Mia madre si voltò a guardare mia nonna e vide il suo sguardo scivolare poco a poco nella fossa e poco alla volta diventare più opaco, svuotato quanto più la bara scendeva. Si chiese quanto e quale parte di sua madre in quel momento si stava trasformando con mio nonno e dove allora lo avrebbe rivisto: in quali gesti, in quali parole. Forse gli stessi gesti e le stesse parole che avrei conosciuto io anni dopo, ma che sarebbero stati ormai di mia nonna e di nessun altro. Ma allora, forse, le stesse parole d’amore e gli stessi baci per me di mia madre sarebbero stati solo un prestito da parte di sua madre, come a sua volta lo furono per lei e, forse, per tutte le madri. Si rivolse di nuovo verso la bara, ma era già scomparsa alla vista. Avevano cominciato a buttare la terra nella fossa. Pensò per momento ancora a suo padre e a sua madre e si meravigliò del dubbio che, forse, aveva conosciuto e amato attraverso di loro molte più persone di quante potesse immaginare. Si alzò in piedi.

In quel momento a mia madre si ruppero le acque. Si appoggiò a mia nonna e in poco tempo tutti la circondarono per aiutarla. Lasciarono la fossa scoperta e accompagnarono mia madre al carro funebre, mentre la vita già mi premeva dappertutto per spingermi fuori da lei. Quando mia madre fu sistemata dove poco prima giaceva il feretro di mio nonno le contrazioni si fecero più forti e cominciò ad urlare, mentre di fianco a lei mia nonna l’assisteva. Mi disse che durante il tragitto dal cimitero all’ospedale si era dimenticata di tutto e di tutti, nel dolore pensava e sperava solo che nascessi. Non esisteva nient’altro, né prima né poi. Eravamo solo io e lei, lì, nell’attimo dello spiegarsi del tempo.

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