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Un sogno chiamato Florida

Anche in tempi recentissimi, il film di formazione è un genere che continua a spopolare fra il grande pubblico: basti pensare a tre pellicole grandemente considerate dall’Academy come Boyhood (Richard Linklater, 2014), Call Me By Your Name (Luca Guadagnino, 2017) e Ladybird (Greta Gerwig, 2017). Tutte storie che attestano il passaggio travagliato dall’adolescenza all’età adulta, spesso confinando il mondo dei grandi e quello dei fanciulli ai margini della narrazione. Sean Baker, nel suo ultimo film The Florida Project (2017), decide invece di far interagire tutte e tre le sfere, prediligendo quella della fanciullezza senza andare a discapito di quella adulta e dell’adolescenza.

La situazione che sin da subito ci troviamo davanti è tragica: alcune ragazze-madri che vivono in un ambiente di assoluta marginalità e degrado. La loro esistenza, e quella dei loro bambini, si svolge tra motel, fast-food e discount alla periferia di Orlando, in una vicinanza paradossale con quel mondo dorato che è invece il parco divertimenti di Disney World. In questo contesto, l’unica figura adulta, mediatrice, è quella del manager di uno dei motel, interpretato da un Willem Dafoe dall’aspetto scavato, l’unico attore di punta della pellicola.

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I bambini, come detto, possono essere considerati i principali protagonisti della vicenda, ma non in maniera esclusiva. Bisogna infatti riconoscere due universi differenti che si alternano nel corso dell’opera: quello delle relazioni reciproche tra i fanciulli, in cui a dominare sono la spensieratezza, la giocosità e l’irriverenza, in una parola le illusioni, e quello delle loro relazioni con il mondo adulto, fatto di squallore, violenza e ingiustizia, in una parola disilluso. La bravura del regista è stata proprio quella di sapersi muovere con fluidità fra queste due realtà, che alternativamente si compenetrano in maniera pacifica o vengono a scontrarsi in modo brusco. Tale compenetrazione trova compimento nella figura delle madri, donne non davvero adulte, ancora giustamente permeate di illusioni, e tuttavia costrette a sorreggere un peso più grande di loro. L’estetica stessa del film interviene ad esaltare questo aspetto di ambivalenza, grazie a una fotografia in cui dominano colori pastello e sbiaditi al contempo. Notevole risulta anche la capacità del regista di alternare camera a mano e riprese panoramiche di ampio respiro, a voler evidenziare tanto la vicinanza ai suoi personaggi quanto la vastità di uno spazio che si sviluppa solo in latitudine e non in altezza.

Il dramma umano che viene sviluppato tocca sempre le giuste corde emotive, senza mai sfociare nel patetismo. Impresa non indifferente, se pensiamo che in questa pellicola recitano bambini che suscitano tenerezza con facilità. Anzi, la genuina crudezza che traspare da alcune sequenze contribuisce ad accrescere il senso di disagio, specialmente se ad essa contrapponiamo la giocosità di alcune altre.

Il quarantasettenne Sean Baker sembra essere riuscito nell’impresa di rendere poetico anche lo squallore, girando un film drammatico realistico, toccante, inusuale e lasciando da parte ogni sorta di buonismo o pietismo.

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