El club (2015), di Pablo Larraín

28/03/2017: la rassegna cinematografica indipendente “Indie” presenta al cinema Politeama, in seconda serata, El club, un film del 2015 di Pablo Larraín, giovane e promettente regista cileno.

Cile, casa sul mare: quattro preti sconsacrati e una suora vivono una quotidianità monotona per espiare i peccati commessi. Arriva un quinto prete, padre Lazcano, seguito dal fantasma del suo passato, Sandokan, che lo induce a interrompere la pace circostante con il suicidio.
La situazione si complica: giunge nella casa un giovane prete-inquisitore, che indaga sull’accaduto e sul passato dei protagonisti, fino a trovare una soluzione definitiva.

Larraín presenta una secca e aretorica denuncia alle inumane efferatezze della Chiesa che non rinuncia ad una resa estetica magistrale.

Da subito lo spettatore viene priettato in una dimensione a sé stante, avvolta nel mistero: colori opachi, luce fioca, atmosfera bluastra e nebulosa, frequenti riprese in controluce, lunghi silenzi che intercorrono tra le scene dialogate, canti corali a cappella. È questo l’universo in cui trova spazio la quotidiantà dei protagonisti, di cui da subito non si mette in evidenza la crudezza del passato efferato, ma una quiete posata che lo spettatore condivide e comprende: è una vita ciclica e abitudinaria, fatta di preghiera, canto e riposo.
Ma è presto evidente come la quotidianità dei protagonisti possa risultare l’efficacissima metafora di quello che questa denuncia vuole mettere maggiormente in evidenza: la necessità di essere compresi pur non essendo giustificabili, l’inevitabile ambiguità che si cela dietro la pretesa di santità del mondo ecclesiastico.
In questo senso è di magistrale effetto il personaggio della suora-governante (interpetata da Antonia Zegers): sconta anche lei la pena di un peccato che però nega, in un’incertezza inquietante; delicatissima la sua voce, pacata la sua presenza, sereno e soddisfatto il suo sguardo, pudiche le sue azioni, ciclici i suoi gesti: in contrasto con la sua innegabile dolcezza il personaggio si fa però portatore di un sadismo estremo e senza pietà, che si rivela nelle continue menzogne, nell’omicidio del cane, nella piena soddisfazione dei suoi occhi alla vista dela violenza sanguinolenta esercitata sul corpo di Sandokan.
Alfredo Castro interpreta un altro personaggio potentissimo in questo senso: è uno dei preti peccatori e pare dei quattro quasi il meno colpevole; ciò risulta sia dai suoi potenti dialoghi, in cui il peccato che ammette si rivela profondamente umano e comprensibile, sia dalla continua e affamata ricerca di uno spiraglio di umanità (si avvicina a un gruppo di giovani ragazzi incontrati in spiaggia, che si palesano ai suoi occhi come il paradiso in cui il peccato può risultare addirittura divertente).

All’inizio del film, il richiamo di Sandokan e il suicidio di padre Lazcano appaiono come un crudo squarcio che pone fine alla ripetitività indefinita degli eventi. La volgarità delle parole e il sangue del suicida sono la scossa definitiva che tenta finalmente di aprire una ferita tra il bene e il male, proprio in una dimensione in cui questi sono indistinguibili.
Ma il suicidio riesce comunque a essere presentato all’improvviso, senza una suspence, paradossalmente quasi in coerenza rispetto agli eventi, il che lascia al film quella sua aura ciclica, pacifica e ripetitiva, evidente anche nella scena in cui il sangue viene lavato via allo stesso modo in cui viene lavata via l’acqua piovana, con gesti indifferenti e ripetitivi.

Innegabile che l’elemento chiave, nella costruzione narrativa, è Sandokan, malato di mente e senzatetto, che ha seguito padre Lazcano lungo il suo viaggio verso la casa di ritiro, che rinfaccia e ribadisce di essere stato violentato da bambino e descrive la sua molestia con un’inquietante quanto efficacissima filastrocca quasi cantata, recitata in giardino, in una scena che richiama l’attenzione di tutti.
Si può considerare il filo conduttore del film non solo perché rappresenta la profonda causa del tragico evento che segnerà le cose, ma anche perché segue i protagonisti lungo tutte le loro improvvise e graduali difficoltà, li incontra per caso, li inquieta anche solo con la sua presenza.
Efficacissimi i suoi tratti squallidi e grotteschi in totale contrasto con la purezza circostante; in lui c’è la schietta realtà da cui i protagonisti non possono scappare.

È l’elemento che sintetizza la pena e la colpa, e lo fa fino alla fine, quando l’unico modo per non chiudere la casa di ritiro risulta essere il suo esserne accolto, il suo potenziale rappresentare per i preti lo stesso pericolo che loro hanno rappresentato per lui.
La fine è quindi la risoluzione circolare e assoluta di una catena di vendette senza sbocco.

El club è un film in cui non si salva nessuno: la denuncia è globale, la speranza di un riscatto non è neanche tenuta in considerazione, persino il prete inquisitore, desideroso di denunciare le colpe, di dar vita alla Chiesa sotto una nuova luce, in extremis, preferisce peccare piuttosto che rischiare di danneggiare l’istituzione religiosa alla quale appartiene.

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