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Narcos e il realismo magico

Yo soy Pablo Emilio Escobar Gaviria. Inarcando le labbra e ferendo la voce ne uscirà un’interpretazione abbastanza plausibile: sono questi i primi effetti di Narcos sulla gente. Si potrà quindi proseguire semplicemente accarezzando il mento e levigando la barba appena rasata, poi i baffi che non s’arricciano e rimangono temerariamente immobili. E’ necessario a quel punto sistemare i pantaloni, non oltre la diga dei chili di troppo eppure troppo larghi; perché di tempo ce n’è, sempre, per ingrassare e dimostrare al mondo di essere comunque superiori. narcos2Oltre l’orizzonte dello schermo si staglia impavida Medellín, nel suo fascino interminabile di agglomerato urbano entropico, frenetico, spontaneo. E’ il palcoscenico di una storia della quale tutti conosciamo la fine: Pablo Emilio Escobar Gaviria [interpretato da Wagner Moura] prima o poi (è il poi che ci interessa, prolungare insomma l’agonia) morirà. E di questo potete star certi, si tratta di dati storici. Qualche sfortunato conosce anche Gustavo, il primo di Escobar; qualcuno i due gringos che dall’ambasceria americana in Colombia sostengono le operazioni del governo colombiano. E allora saprà del presidente Gaviria e forse addirittura de La Catedral, il marcio fuori e la vita all’interno, la fortezza del patron; soprattutto quelli nati prima degli anni ottanta, che seguirono la vicenda con lucidità: l’ascesa, gli attentati, la distruzione, la latitanza, la morte. Ma nell’intermittenza fra immagini documentarie e riproduzione filmica, il finale della seconda stagione di Narcos- come ogni singola puntata- non può che segnare una frattura.
È una fortuna che la serie –  creata da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro per Netflix – rispetti in modo pressocché accettabile la cronaca (checché ne dica il figlio di Escobar, che si “lamenta” dell’inattendibilità della serie con quelle che a me paiono, più che altro, rivelazioni marginali), dato che a logica è difficile esagerare. Soprattutto non può – almeno non pretende – di sorprenderci, o almeno non del tutto. Eppure in qualche modo ci riesce comunque, ci convince, ci corrompe attraverso un ulteriore passo nell’iter della narrazione: è un plata o plomo rivolto allo spettatore, inorgoglito da quell’infrazione della quarta parete e terrorizzato dalla ricorsività degli eventi.5750 È  un altro patto e viene stipulato all’interno della casistica del romanzo storico, in quella variabilità che fa del realismo magico la messa in gioco, la mossa inaspettata, l’oniricità trafugata.
Conosciamo la storia, o per lo meno il personaggio e in linea di massima la parabola e i rami della sua ascesa e della sua caduta. Cosa, insomma, cosa ci trattiene? Nella logica del romanzo storico l’effetto sorpresa passa in secondo piano, la frattura è una voragine annunciata e non un distacco, né un punto d’arrivo (che assieme alla conclusione sfumano, si rendono dispensabili). La sorpresa (pure decisamente presente, con la grandezza sublime degli attentati dalle lontane eco mafiose, con la fragilità di molte esistenze, attraverso la brutalità di un uomo che galleggia fra umanità e mostruosità – la seconda ebbe la meglio- e la maschera dell’amore famigliare indossata come per una strana riverenza nei confronti del pueblo, cosa che rese Pablo il primo uomo santificato ancora vivo e che – diciamocelo – nient’altro apparve che come una premonizione) la sorpresa lascia il campo a un gioco, già detto, differente:

“Noi stiamo parlando, c’è forse una bomba sotto questo tavolo e la nostra conversazione è molto normale. Non accade niente di speciale e tutt’un tratto: boom, l’esplosione. Il pubblico è sorpreso, ma prima che lo diventi gli è stata mostrata una scena assolutamente normale, priva di interesse. Ora veniamo alla suspense. La bomba è sotto il tavolo e il pubblico lo sa, probabilmente perché ha visto l’anarchico mentre la stava posando. Il pubblico sa che la bomba esploderà all’una e sa anche che ora è l’una meno un quarto – c’è un orologio nella stanza. La stessa conversazione insignificante diventa, tutt’a un tratto, molto interessante” (François Truffaut, “Il cinema secondo Hitchcock”, Parma, 1989, p. 60).

Hitchcock, maestro della suspense, ci consegna una chiave di comprensione. Dovendo attenersi a una cronaca di dominio pubblico, la narrazione non può che avvalersi dei fatti come di un sistema di amplificazione della vita del protagonista, degli stralci insignificanti, dei frammenti di vetro rotti e delle loro immagini riflesse, illusorie: è così che infatti avviene la trasformazione del personaggio, da terrorista senza cuore a terrorista con un po’, giusto un po’, di altruismo. L’indagine di questa trasformazione ha talmente affascinato gli spettatori che numerosissime sono le lettere inviate al figlio in cui si chiedono consigli su come diventare un narcotrafficante, e non solo; così che la narrazione si addentra fin nelle strade dissestate della città natale di Pablo, Medellín, e di Bogotà, dove il palazzo del governo aggetta la sua ombra sul grande quartiere centrale. Attraverso la regia meravigliosa di José Padilhalo spettatore si traveste da devoto e ausculta una profezia del passato, un rituale che trasforma la storia in qualcosa di magico, di esoterico.  Dalle parole di Hitchcock si evince che la tragedia abita – come forse il piacere? –  l’attesa (“non c’è terrore in uno sparo, ma solo nell’attesa di esso.” ) e l’unica – direi necessaria e ricercata – sensazione di sollievo ce la consegnano la storia e la sua (in)esistenza.

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