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Direttamente dal Milano Film Festival

Parlare di cinema è qualcosa che si ama fare in generale, ma quando ti trovi davanti ad un’ ottica lavorativa, nel cinema, la prospettiva con cui ti approcci a un lungometraggio cambia in maniera sostanziale. Ed è quello che succede quando una laureanda in filosofia si trova catapultata in un’esperienza in un Festival cinematografico come quello di Milano, affianco ad una redazione come quella di LongTake, abbandonando per un po’ le velleità astratte e assaggiando una soddisfazione concreta dal gusto buonissimo.

Sei i lungometraggi in concorso, tutti realizzati da registi sotto i 35 anni, poco più che esordienti, prodotti culturali che con tutta probabilità non arriveranno mai nelle nostre sale cinematografiche. Affianco a questi, proiezioni fuori concorso di generi ed estrazioni diverse nel tentativo di dare una panoramica del cinema nel 2016 a vari livelli e in varie forme. I pregiudizi e le opinioni in quanto a gusti culturali sono qualcosa di fondamentale per autodeterminarsi ma, davanti ad una simile vetrina, scontrarsi con generi da cui normalmente tendiamo a scappare è inevitabile.

Ci sono stati tre incontri in particolare, tre pellicole di giovani registi che hanno realizzato qualcosa di importante e che mi sono rimasti nella mente, ognuno per dei motivi totalmente diversi.

Il primo appuntamento al buio, proprio il primo giorno di Festival, è stato quello con l’horror, non una pellicola horror ma un film che parla di horror: Charlie Lyne, classe 1991 (giusto per appianare le velleità di noi universitari), si era già reso noto in Inghilterra a 16 anni per Ultra Culture, un blog di critica cinematografica dallo stile splendidamente sfacciato, tranchant e informale. E se a quell’età sei già un piccolo Lester Bangs cinematografico dei giorni nostri, dal giudicare non puoi che passare al produrre: dopo un esordio documentaristico sui teen movie, Beyond clueless, questo enfant prodige nel 2015 realizza Fear itself, uno stupendo omaggio cinefilo al genere horror che, tramite spezzoni di film che hanno fatto la storia del cinema, con una voce femminile fuori campo indaga in termini quasi psicanalitici i processi mentali che il genere va a stimolare durante la visione, l’immedesimazione che abbandona la razionalità e va a colpire la nostra percezione sensoriale fino a toccare le fobie del nostro inconscio. Da scovare su internet e vedere assolutamente, sia per gli amanti del genere che per chi, come me, ancora lo deve comprendere.

La seconda scintilla è stata invece inevitabile davanti all’estetica tenue e minimale di Rachel Lang. Francese, studia filosofia e successivamente arti visive in Belgio, come tesi di fine carriera universitaria realizza un cortometraggio, Pour toi je ferais bataille, che vince il Pardo d’argento a Locarno e viene selezionato in più di 50 festival di cinema internazionali. Un esordio che definirei incoraggiante; così, dopo altri corti, nel 2016 esce Baden Baden, un film che non sente l’esigenza di una vicenda da raccontare: uno zoom su un’estate, quella di Ana, ricca di cambiamenti e piccoli drammi in cui non si può che immedesimarsi con un sentimento agrodolce accompagnato da una delle figure femminili più belle, disinibite, mai volgari e delicate che vi possa capitare di vedere, quella di Salomè Richard (già protagonista del primo cortometraggio della regista), di cui vi innamorerete lentamente.

C’è stato poi un altro progetto, tanto controverso quanto affascinante, che è stato presentato nel corso della rassegna e che si allaccia ad un altro genere totalmente bistrattato: quello pornografico.

Una regista svedese, Erika Lust, qualche anno fa ha iniziato a girare dei film pornografici tentando di dare al genere una svolta più realistica, senza tacchi a spillo, gesta acrobatiche e depilazioni esotiche ma investendo anche in un valore educativo della pornografia, come mezzo per migliorare una sfera così delicata e personale. Passa qualche anno e arriviamo anche noi in Italia con un progetto dal nome “Le ragazze del porno”: dieci registe, dall’età compresa fra i 25 e i 70 anni, che non si sono cimentate mai in questo genere, decidono di iniziare una campagna di autofinanziamento con crowdfunding per girare dieci cortometraggi con un fine analogo a quello della Lust: al Milano Film Festival sono stati presentati i primi due corti per cui sono stati raccolti i fondi.

Se il primo, Queen Kong, con protagonista Valentina Nappi, è un tentativo di cattivo gusto di sovvertire i presunti ruoli di dominanza e recessione nel rapporto fisico uomo-donna; un’attenzione di un altro tipo merita Insight, girato da Lidia Ravviso e incentrato sul ruolo di Slevina, attivista e attrice-porno nota soprattutto a Roma. Una stanza d’albergo, nessun rapporto. La macchina da presa si muove con sensualità nell’inquadrare dettagli del corpo che arrivano ad accentuare l’empatia emozionale fra spettatore e attore, e la cura per la fotografia è notevole, fino ad arrivare a giochi di montaggio, come audaci split-screen. Lasciando ben poco di quello che noi consideriamo pornografia, arriva a stabilire un contatto psicologico di natura diversa. Cinematograficamente una cosa nuova.

I festival di cinema sono ciò che abbiamo per renderci conto che il cinema non è solo quello che, dopo essere stato esportato dall’altra parte del mondo, vediamo sullo schermo di un multisala, e che fare cinema non è la vetta di diamante di una carriera lavorativa o accademica: i film sono bisogni che arrivano dal basso, confessioni, spesso mezzi per fare piccole mappature della nostra singolare realtà alla ricerca di un’empatia. Il cinema si può fare ad ogni età, con ogni mezzo, senza che questo inquini la sua potenza comunicativa.

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