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#IJF14 – (IN)VISIBLE CITIES

di Elisa Zamboni

Ngalula Beatrice Kabutakapua

Docu-film girato dal film-maker Angelo Giampaolo Bucci e dalla giornalista freelance Ngalula Beatrice Kabutakapua, (IN)VISIBLE CITIES vuole portare alla visibilità le comunità di migranti africani considerate “invisibili”: come vivono, come raggiungono il cambiamento, come ottengono si integrano e mantengono la propria identità.

LA NASCITA DEL PROGETTO – Iniziato in un primo momento come investigazione fotografica di Beatrice a Cardiff, il progetto di scoprire le diverse comunità africane nel mondo ha preso più ampio respiro all’incontro con Paolo a Londra. «Il primo step è stato iniziare», dice Beatrice alla conferenza Migrazione, integrazione, diversità nei media del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. «Abbiamo iniziato che eravamo solo noi due e continuiamo a esserlo senza l’appoggio di nessuno: non perché sentiamo di poter spendere tutti i nostri soldi per questo progetto ma perché non volevamo aspettare».

A livello professionale «Abbiamo poi dovuto rivedere le nostre pratiche giornalistiche e tecniche di regia» racconta sempre la giornalista. «Una delle prime cose che abbiamo cambiato è stato il modo di condurre ricerche: a priori, in modo molto vasto, comprendendo articoli giornalistici, ricerche accademiche, ricerche online e sulle persone intervistate. Perché? Per costruire un rapporto vero con le persone, non limitandoci a chiedere qualcosa puntando un microfono».
Una sfida insomma, un nuovo approccio «Non tanto per far la parte dei buoni dei media» ribatte Paolo, «ma un nuovo modo di porsi, di comunicare e di sfruttare la libertà data dalla produzione indipendente che non deve ricalcare alcun mainstream».

 

SCELTA DEL TEMA E CITTÀ TOCCATE – «Abbiamo deciso di concentrarci sull’Africa Sub-sahariana» commenta Paolo, «sia con un riferimento alle origini di Bea sia per la forte presenza di comunità particolari provenienti da lì. Questa scelta non vuole essere un limite alla ricerca ma una focalizzazione su categorie di cui non si sente parlare (imprenditoria migrante, casi di successo, situazioni di comunità stanziate da lungo tempo) e un’occasione per parlare di circostanze comuni a tanti di noi».

Chiaramente il reportage non mostra solo una realtà ultrarassicurante: «Quelle rappresentate sono realtà multisfaccettate» spiega sempre il regista, «per esempio a Istambul sarebbe stato un torto negare situazioni degradate, ai limiti della violazione dei diritti umani. Si va da esperienze straordinarie come l’artista africano che ha imparato a scrivere l’arabo alla perfezione tanto da riscrivere il corano, alla ragazza senegalese che vive in un sottoscala. Sono storie di vita sempre difficili ma bisogna stare attenti a non scadere nel pietismo».

Le città toccate dal documentario saranno in totale tredici, come visibile sul sito www.invisiblecities.us. Quelle già viste sono: Cardiff, Los Angeles, New York e Istambul. Mancano invece: Tel Aviv, Brussels, Oslo, Tokyo, Brisbane, Quibdò, Tenerife, Cape Town e Napoli.

INTEGRAZIONE E IDENTITÀ – Per quanto riguarda l’integrazione, i reporter hanno osservato differenze tra la gestione del fenomeno a livello europeo e a livello americano.
In America infatti l’organizzazione dell’immigrazione avviene attraverso il resettlement programme per i richiedenti asilo o rifugiati, gestito da USA, organizzazione mondiale delle nazioni e ‘ONU. Il programma prevede l’accettazione di un certo numero di rifugiati all’anno che vengono presi in carico da una delle 15 agenzie presenti in ogni Stato e che garantiscono una casa e un piccolo contributo mensile per l’adattamento dei migranti. Trovando lavoro e creando nuove radici, da “ospiti” del Paese i migranti possono diventare cittadini dopo circa 5/6 anni.

Angelo Giampaolo Bucci

A livello di integrazione, come afferma Paolo, «c’è poi da dire che vi è un doppio passo tra anziani e giovani. Per gli anziani l’integrazione è molto lontana poiché continuano a vivere nello stesso quartiere nel quale arrivano e non entrano in scambio con l’esterno. I giovani invece attraverso scuola, sport e ricerca di lavoro sono motivati a cambiare e ad avere obiettivi anche fuori dalla comunità».

Integrazione però non significa annullamento della propria identità. «I migranti hanno spesso anche la coscienza della provincia, della città dove sono nati, soprattutto quelli di prima generazione» racconta Beatrice. «In America si tende a utilizzare il riferimento al nero prima che all’Africa ma per quanto riguarda loro stessi sono coscienti della loro identità, proprio perché si sono spostati recentemente e hanno creato comunità dove cercare di mantenerla. Vogliono custodire le loro radici e tentano di mantenerle anche nei figli. La perdita di identità è più caratterizzante nelle seconde generazioni».

LINGUAGGIO E DESTINATARI – A livello di lessico, come dichiara Paolo, purtroppo in Italia si parla ancora per stereotipi, con leggerezza. «È invece importante cercare di non fare di tutta l’erba un fascio: ogni persona ha avuto un passato, una storia specifica e sarebbe ingeneroso mettere in un unico calderone o etichettare persone senza osservare la loro vicenda personale».

E come detto ai nostri microfoni, il tentativo di questo docu-film è quello di avvicinare coloro che sono contrari o restii a questi discorsi. «È sicuramente ambizioso pensare di poter cambiare la mentalità di chi non accetta il diverso. È però altrettanto importante mirare a un pubblico studentesco ancora genuino, che non sente ancora le differenze come negatività come vengono portati a essere col tempo».
Per quanto riguarda l’integrazione i reporter hanno osservato differenze tra la gestione del fenomeno a livello europeo e a livello americano.
In America infatti l’organizzazione dell’immigrazione avviene attraverso il resettlement programme per i richiedenti asilo o rifugiati, gestito dagli USA, dall’organizzazione mondiale delle nazioni e dall’ONU. Il programma prevede l’accettazione di un certo numero di rifugiati all’anno che vengono presi in carico da una delle 15 agenzie presenti in ogni stato e che garantiscono una casa e un piccolo contributo mensile per l’adattamento dei migranti. Trovando lavoro e creando nuove radici, da “ospiti” del paese i migranti possono diventare cittadini dopo circa 5/6 anni.

A livello di integrazione, come afferma Paolo, “c’è poi da dire che vi è un doppio passo tra anziani e giovani. Per gli anziani l’integrazione è molto lontana poiché continuano a vivere nello stesso quartiere nel quale arrivano e non entrano in scambio con l’esterno; i giovani invece attraverso scuola, sport, ricerca di lavoro, sono motivati a cambiare e ad avere obiettivi anche fuori dalla comunità.”

Integrazione però non significa annullamento della propria identità, anzi, “i migranti hanno spesso anche la coscienza della provincia, della città dove sono nati, soprattutto quelli di prima generazione” racconta Beatrice. “In America si tende ad utilizzare il riferimento al nero prima che all’Africa ma per quanto riguarda loro stessi sono coscienti della loro identità, proprio perché si sono spostati recentemente e hanno creato comunità dove cercare di mantenerla. Vogliono custodire le loro radici e tentano di mantenerle anche nei figli. La perdita di identità è più caratterizzante nelle seconde generazioni.”

LINGUAGGIO E DESTINATARI.

A livello di lessico, come dichiara Paolo, purtroppo in Italia si parla ancora per stereotipi, con leggerezza, “è invece importante cercare di non fare di tutta l’erba un fascio: ogni persona ha avuto un passato, una storia specifica e sarebbe ingeneroso mettere in un unico calderone o etichettare persone senza osservare la loro vicenda personale”.

E come detto ai nostri microfoni, il tentativo di questo docufilm è quello di avvicinare coloro che sono contrari o restii a questi discorsi. “È sicuramente ambizioso pensare di poter cambiare la mentalità di chi non accetta il diverso. È però altrettanto importante mirare ad un pubblico studentesco ancora genuino, che non sente ancora le differenze come negatività come vengono portati a essere col tempo”.

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