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3% – una sceneggiatura e un cast insufficienti per una serie che funziona

Non capisco perché io abbia cliccato sull’insignificante icona di 3%, col catalogo Netflix che stracciava la mia salute mentale con promesse vitali e dinamiche contrattuali dipendenti, non capisco neppure come abbiano fatto gli autori a chiamare una serie in questo modo: ogni volta che tocca citarla mi disarticolo le dita e su google la ricerca è ambigua.

Già dai primi secondi la sceneggiatura appare scritta da un nostalgico orwelliano con poco talento; l’ambientazione è con certezza (ne riconosco gli angoli, gli odori, la sporcizia) il magazzino di mio nonno con la Jeep della guerra mondiale e le casse colme di spazzatura; gli effetti speciali sembra siano stati affidati al vicino di casa indiano bravo coi computer e parimenti direi la grafica 3D, non abbastanza curata, probabilmente neppure necessaria. I costumi pessimi, affittati al centro mail della Decathlon; la maggior parte degli attori sono stati raccolti dalla strada (un desiderio avanguardistico di mimesi del reale?) per partecipare ad una puntata speciale de Il Segreto… eppure, cosa devo dire, l’ho vista tutta: funziona. Dirò di più: rapisce.3-netflix-film-1080x720

Non riesco ancora a comprendere perché: forse sarà la lingua? Un brasiliano tanto estraneo quanto familiare (prossimo, in qualche sfumatura criminale, al calabrese d’entroterra) e specialmente musicale; sarà la bellezza atipica di una delle protagoniste, Bianca Comparato in Michele; credo sia, più probabilmente, la caratterizzazione dei personaggi e ciò che rende efficace questa caratterizzazione.

Sorvolando una sceneggiatura – l’ho già annunciato – mediocre, i tempi narrativi e l’intreccio sono a dir poco splendidi, illuminano i volti dei ragazzi, ne tracciano l’esistenza: lo scontro fra il passato prossimo (in teoria un futuro distopico) delle favelas e il presente ansiolitico e caduco del “processo” esaltano l’eccesso, le fratture d’ogni personaggio, permettono un’analisi spettatoriale direi inedita. L’apparente ostacolo del tipo letterario (il nobile, il furbo, la donna intraprendente…) viene frantumato (o sorvolato) con una volontà feroce di sfumatura, il modello ideale di ogni tipo di macedonia letteraria è condita abilmente col giusto tocco di vino bianco (talvolta frizzantino) e panna fresca.

Pedro Aguilera, ideatore e tuttofare della serie, pubblicò una serie omonima nel 2011. Il reboot è pubblicato sul catalogo Netflix lo scorso novembre. Il creatore, prendendo spunto con assoluta priorità dal bonus degli 80 euro di Renzi, immagina un futuro (prossimo?) nel quale il governo brasiliano ogni anno concede ai maggiorenni la possibilità – una sola in tutta la loro vita – di cambiare, di vivere nell’Offshore, uno spazio per tutto il tragitto degli episodi impalpabile, ma sappiamo privo di violenza, di malattie, di ingiustizia. Solo il 3% dei partecipanti, però, potrà, per merito, raggiungere il paradiso terrestre, gli altri cadranno di nuovo nella polvere, a strisciare, vivere e morire per strada.

Sembra un trito Hunger Games, invece appassiona. Pare livellato sul linguaggio distopico classico, invece punzecchia, infastidisce.
Credo di aver azzeccato il termine giusto: infastidisce, come un neonato le prime notti in culla, come il professore che ridacchia parlando dell’esame, come la vicina di casa che alle sei di mattina accende l’aspirapolvere… ma diviene parte del tuo habitat, diviene indispensabile.

636157883115519549207906933_3porcentoFortunatamente, Netflix ha rinnovato per una seconda stagione, dando la possibilità ad Aguilera di rovinare la propria serie e cadere nell’oblio dei registi di serie tv. Vedremo, io attendo appollaiato sul davanzale della mia tastiera, dedicandomi al repertorio comico di Netflix, in attesa della quinta di Orphan Black, pure, e sperando di laurearmi (non ce la farò).

Trailer.

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