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L’isola di Pantelleria: un trionfo di ossimori e sinestesie



Settanta sono i chilometri che la separano da Kelibia, in Tunisia, mentre oltre cento sono quelli che la dividono da Mazara del Vallo in Sicilia. Pantelleria (per la precisione, Punta Fram) è il territorio italiano più vicino all’Africa: dal golfo di Scauri fino al paese principale dell’isola (che si chiama proprio Pantelleria, ma che i locali chiamano “il paese”), all’ora del tramonto, se non c’è foschia, si possono vedere abbastanza nitidamente le coste della Tunisia, accompagnate da un sole dai colori africani che è molto difficile vedere da altre parti del nostro paese, soprattutto dalla Sicilia in su.

Pantelleria è un’isola cruda, forte ma delicata, amara ma rigogliosa, rassicurante ma angosciante: è un’isola tutta di ossimori, dove al blu cobalto e al verde del mare cristallino che bagna quasi tutte le sue coste si accompagna il nero delle rocce e il marrone scuro delle colate laviche; dove al dolce del Passito locale si unisce l’amaro agrodolce del cappero, coltivato un po’ dovunque sulle pendici dei terricci; dove al dolce suono del mare che giace calmo di giorno si accompagna la forza del vento che, impetuoso, ogni sera soffia forte sulla terra ferma. È un’isola dai forti odori, rumori, colori e sapori. Un trionfo sinestetico.

‘Coltivazioni nell’interno dell’isola, Strada della Ghirlanda.

“O la ami o la odi” è uno dei mantra dei panteschi (così si chiamano i nativi di queste parti, ma anche gli abitanti che, anche se per circostanze della vita si trovano lontani, restano molto orgogliosi della loro origine e della loro appartenenza): è bene andare a caccia dei locali durante un soggiorno a Pantelleria, perché le loro parole e il loro sguardo, più ancora dei colori del mare e della terra, riescono a dar voce a quello che l’isola rappresenta veramente. Così, può capitare di conoscere un cuoco napoletano “naturalizzato” pantesco, che vive tra Pantelleria e Berlino cucinando arancini, calzoni, caponate, couscous (sì, la cucina pantesca risente di quella africana) e pesci di ogni tipo, innamorato del mare tanto da andarci di notte da solo, per gustarsi quel rumore e quegli odori che di giorno sono schiacciati dal cocente sole africano. Può capitare anche di imbattersi nella casa della signora Antonietta, “nata, cresciuta e ‘nvecchiata a Pantelleria”, come è solita dire lei ai (pochi) turisti che passeggiano nella via principale della frazione di Scauri, che a ottant’anni trascorre le giornate cucendo borse, presine e vestiti, tutti a mano, vendendoli a prezzi irrisori (in proporzione al lavoro fatto) e facendosi pubblicità con un catalogo di fotografie realizzate dalla figlia: anche le fantasie inventate dalla signora sono un tripudio di colori e di disegni, come se in quelle borse si rispecchiasse o richiamasse naturalmente la ricchezza della natura che la circonda. Infine, passeggiando nel porto del paese, può capitare di incontrare nei pressi di Pippo il buongustaio, una gastronomia da strada come quelle che al nord non possiamo neanche immaginarci, un vecchio che intrattiene i turisti illustrando la principale filosofia pantesca: “Un problema alla volta. Non puoi affrontare un problema oggi? Lo affronti domani. Domani è un altro giorno”. Una sorta di lento carpe diem, che risente della calma che pervade tutta l’isola, forse perché la calma è l’unico modo per poter affrontare i venti (tramontana, risacca, maestrale), che per tutto l’anno soffiano sulla piccola terra emersa.

Le acque cristalline di Cala Cinque Denti.

Pantelleria è sia terra che mare (un altro ossimoro). Chi la vive è uomo di terra, che si è ingegnato per secoli a studiare terrazzamenti in pietra lavica per proteggere le coltivazioni dai venti; che ha progettato i giardini panteschi, dove alte mura, sempre in pietra lavica, cullano delicatamente piante che giacciono talvolta da secoli, offrendo nel corso del tempo rigogliose i loro frutti; o che si è inventato il dammuso, dimora locale, sempre in pietra lavica, costruita in modo che non serva ai moderni alcun tipo di riscaldamento o di aria condizionata, poiché al suo interno è garantito un microclima temperato più o meno costante in ogni stagione. Chi vive Pantelleria però è anche uomo di mare. Tanti sono i modi di vivere il mare in quest’isola, ma una cosa è certa: non si può fare a meno di viverlo a fondo. I colori del mare sono un tripudio di blu e di verde (dimenticatevi l’azzurrino caraibico), che già all’impatto svelano i 5 o 6 metri di profondità che si stagliano subito a pochissimi metri dalla costa, sprofondando in abissi che nascondono siti archeologici subacquei, stelle marine e pesci di ogni genere (attenzione alle meduse, che con l’acqua calda spesso sono davvero tante!). Il mare di Pantelleria è quiete e tranquillità; i suoi accessi sono quasi per la maggior parte complicati (non c’è un granello di sabbia in tutta l’isola), e lo si gode maggiormente dal mare (da un’imbarcazione) più che della terra, sia che si scelga una piccola escursione di 6/7 persone, sia che ci si affidi a Franco Futura, il “pirata” dell’isola, un vecchio lupo di mare, una specie di Jack Sparrow, che conosce ogni centimetro della costa e del mare, ma che non si risparmia in un’esilarante show per i passeggeri che ospita quotidianamente sulle sue barche, rompendo così per qualche ora il silenzio che, costante, accompagna ogni angolo di questo piccolo paradiso. Il mare, certo, lo si può godere anche dalla terra: il fascino di Cala Cinque denti lascia senza parole anche osservandola dall’alto dell’area dal faro di Punta Spadillo (ma il bagno in mare è qualcosa di unico), così come la passeggiata che porta al Laghetto delle odine, una piccola piscina naturale creatasi in una rientranza di rocce di pietra lavica grazie alle acque del mare portate al suo interno dalle onde di alta marea, dove si incontrano tombe antiche locali (i Sesi) e vecchi giardini panteschi adattati a punti di vedetta durante la Seconda Guerra Mondiale, il tutto in un sentiero colorato dal nero della pietra lavica e dal verde della macchia mediterranea, che sboccia rigogliosa come non mai su questo versante dell’isola.

Il lago specchio di Venere, in un vecchio cratere vulcanico.

Una settimana non basta per stare a Pantelleria, perché c’è molto altro da vedere, dalla Montagna Grande alle acque calde di Gadir e di Nikà, dall’incantevole baia della Balata dei Turchi alle aziende vinicole locali, dall’azzurro del lago di Venere alla sauna naturale di Benikulà, dai soffioni che escono dalla terra nell’area delle favare alla piana della Ghirlanda, tutta coltivata da ogni lato. “A Pantelleria inizi ad entrare nei ritmi dopo 5-6 giorni che sei arrivato”, dicono i panteschi: così dopo una settimana inizi ad orientarti con le vette (che qui chiamano kuddie), ad inoltrarti in territori interni come Sibà, a fermarti per le strade per raccogliere un cappero, un’oliva, un po’ di uva o un pomodoro, e a decidere quale strada percorrere fra le tante a disposizione, perché dopo una settimana anche i ripidi sterrati iniziano a farti meno paura, sia dallo scooter, ma soprattutto dalla macchina.

Non tutti hanno tanto tempo a disposizione per le vacanze: una buona sintesi di Pantelleria credo si possa avere sostando tra Rekhale, Scauri e Suwaki, nel tratto tratto ovest della costa (Pantelleria si divide tra chi vede l’alba e chi vede il tramonto), dove la sera il sole che si tuffa nel mare lascia senza fiato. Una bruschetta con pesto pantesco, mandorle o cappero, panelle speziate, olive e un bicchiere di zibibbo accompagnano al meglio la visione del tramonto africano, che regala ai turisti in visita all’isola un mix unico di odori, colori, sapori e rumori (già, perché “anche il silenzio può fare rumore”, come ci ricordano Mogol e Battisti). Un trionfo di ossimori e di sinestesie, che fanno di Pantelleria un piccolo paradiso della nostra meravigliosa Italia.

Vista del tramonto dal porto del paese di Pantelleria.



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