Attualità

L’equilibrio instabile del PKK tra guerriglia e autonomia

Foto di Asmaa Waguih (Reuters, credits Contrasto)

È molto difficile parlare dei Curdi, o popolo curdo, in modo generale. Se è vero che i curdi rappresentano un unico gruppo etnico, internamente sono un popolo estremamente diviso sia dal punto di vista religioso, che politico e ancor più geografico. I Curdi sono in origine un popolo tribale e in quanto tale tendono ad avere delle lealtà radicate in gruppi ristretti o addirittura a singole persone. Questo ha dato grossi problemi per la creazione di un movimento nazionalista unico. Le aspirazioni di indipendenza e autonomia non sono state sempre le stesse per la totalità dei curdi ma sono variate (e continuano a variare) a seconda della regione in questione. Che si guardi alla Turchia o all’Iraq i nomi e le rivendcazioni cambiano notevolmente. Chiaramente gli sconvolgimenti regionali attuali non semplificano la lettura, tutt’altro. Per iniziare si guarderà alla Turchia che, come si sa, ha il rapporto di Curdi per abitanti più elevato.

Come la maggior parte del Medio Oriente, anche il territorio curdo era sotto il controllo Ottomano; per lungo tempo quest’ultimo ha tentato di incorporare i Curdi nel sistema amministrativo cercando di rompere la sua struttura tribale. Generalmente, l’esito delle ingerenze ottomane nei territori curdi, che fossero queste per ragioni di modernizzazione o di semplice tassazione, era una ribellione armata. Le regioni curde erano praticamente ingovernabili, la strategia dell’Impero Ottomano fu dunque di provare un divide et impera: favorire cioè un’identità invece di un’altra in modo tale da tentare di normalizzare l’area. Tra i Curdi però, le divisioni esistevano già ed erano praticamente infinite, i curdi erano sia Sunniti che Aleviti (ramo mistico della religione musulmana che si richiama a scuole interpretative particolari sviluppatesi nella regione dell’odierna Turchia), ma esistevano anche gruppi di lingua Kurmanji e Zaza. Le regioni occidentali e orientali poi erano tra loro molto diverse, senza contare le correnti politiche caratteristiche di ogni gruppo. Per tutte queste ragioni storico-culturali non si può definire un’identità curda unica, anche se i governi molte volte hanno tentato di individuarli semplicemente come “altri”. Le lealtà solidamente ancorate alla dimensione rurale difficilmente si conciliavano (e questo avviene tuttora) con l’identificazione di un leader unico.

L’evento che però ha maggiormente segnato la storia curda è stata la Prima Guerra mondiale, quando cioè l’Impero Ottomano è venuto meno ed è iniziato il processo si creazione della Repubblica di Turchia. Nel 1920, durante Conferenza di pace di Parigi, fu firmato il Trattato di Sèvres all’interno del quale si definivano le zone di influenza delle potenze europee in Medio Oriente. I confini arbitrari fecero ricadere due piccole minoranze curde nel protettorato della Grande Siria (poi dopo l’indipendenza semplicemente Siria) e della Persia (Iran); mentre le due regioni principali del Curdistan si ritrovarono in Iraq e Turchia. In Iraq, questa era al nord, in una regione omogenea dal punto di vista etnico, tanto che si parla ancora oggi di “Curdistan iracheno”; mentre in Turchia, i Curdi erano presenti nella regione meridionale orientale. Un frazionamento di questo tipo ha ovviamente modellato una nuova diversità interna ai Curdi, i quali hanno subito un sincretismo culturale con lo Stato sotto il quale erano ricaduti. Questa commistione può non risultare immediatamente evidente, ma ha sicuramente aggiunto delle divisioni interne culturali, politiche e geografiche ad un mosaico già abbastanza complesso.

In Turchia il passaggio dalla precedente conformazione imperiale alla Repubblica è stato guidato da Mustafa Kemal, noto anche come Atatürk, il padre dei turchi. Egli partecipò alle negoziazioni del Trattato di Sèvres promettendo di dare spazio alle richieste autonomiste curde (artt. 62 e64), e in generale alle minoranze all’interno dei propri confini, ma tali promesse rimasero quanto più disattese possibile. Infatti il processo di nation-building promosso da Kemal mirava a creare un’omogeneità etnica e culturale interna che di fatto non era mai esistita prima. L’Impero Ottomano aveva mantenuto il controllo su un’ampia varietà di territori e aveva incorporato talmente tante identità diverse che al momento della sua fine non si poteva parlare di una nazione unitamente ottomana, che si potesse trasformare poi in un’identità unitamente turca. Per ovviare a questa grande diversità, Kemal promosse una politica di assimilazione in tutte le regioni e circoscrizioni amministrative. In breve, chi era in Turchia doveva diventare turco. Doveva dunque riconoscersi in un lingua, una cultura, una religione uguale per tutti. L’arabo fu sostituito dal turco e le differenti religioni dovevano essere abbandonate in favore dell’Islam. La scelta dell’Islam non mirava a creare una Rrepubblica confessionale, le istituzioni rimanevano laiche, ma la religione maggioritaria doveva essere quella musulmana.

L’applicazione della nuova Costituzione fu particolarmente difficile nelle zone orientali del paese, dove si trovavano le due grandi minoranze del paese, gli Armeni e i Curdi. Lasciando i primi per altre occasioni, lo Stato adottò nei confronti dei Curdi  tre strategie: l’assimilazione, che mirava a rompere i legami tribali, la cooptazione dei leaders tribali all’interno dello Stato per normalizzare la regione quantomeno a livello politico e infine una strategia che mirava ad opporre le tribù le une contro le altre. Chiaramente, quegli stessi capi tribali si ribellarono contro lo Stato con le armi, non facilitando in niente l’ingovernabilità della regione rispetto ai tempi dell’Impero.

In Turchia la questione curda si è legata a due elementi che insieme la rendono un fronte compatto contro lo Stato ma allo stesso tempo aprono delle grosse crepe ideologiche al suo interno, sono questi l’Islam e il socialismo.

Una prima grande differenza religiosa interna si ebbe nel sostegno che i Curdi aleviti diedero al progetto nazionale di Mustafa Kemal, rispetto ai Curdi sunniti che sostenevano piuttosto il movimento islamico anti-kemalista. Tuttavi,a le cose non rimasero così semplici, al momento della creazione della Turchia, l’Islam venne legato alla nuova identità turca. Il nazionalismo reinterpretava la religione come elemento caratterizzante dell’essere turco. Pur essendo una Repubblica laica nelle istituzioni, l’Islam è sempre rimasto al cuore del dibattito politico. Kemal disponeva in un modo abbastanza complesso che l’identità nazionale non si basasse sul carattere etnico (visto che non esisteva un’etnia dominante) ma su quello religioso, quindi tutti coloro che non erano musulmani venivano identificati come una minoranza. I Curdi però non potevano di fatto essere riconosciuti come minoranza, e vedersi garantiti i diritti particolari dei gruppi minoritari, visto ch erano musulmani. Si veniva dunque a creare un paradosso difficilmente risolvibile: i Curdi non erano Turchi perché avevano lingua e cultura diversa, ma erano Turchi perché musulmani. O meglio, dovevano diventare Turchi perché musulmani, questa imposizione spiega il motivo della scelta dell’assimilazione culturale e linguistica portata avanti dallo Stato.

I Curdi però non erano minimamente inclini a rinunciare volontariamente alla propria identità nazionale, figurarsi nel momento in cui veniva imposta. A fronte di una crescente presenza statale nella regione, i Curdi si ribellarono spesso in modo violento e armato. una tendenza che contribuì a creare nell’immaginario nazionale la figura del curdo violento, tribale, economicamente retrogrado e fanatico. Un discorso di questo tipo fu ripreso da Kemal come giustificazione della dominazione imposta nelle regioni meridionali orientali. Tuttavia, sempre per non doverne riconoscere la diversità etnica, egli non parlava di “curdi” ma di “pericolosi reazionari retrogradi”.

Di fonte a ciò, per reazione, l’identità curda si secolarizzò quasi completamente, e lo fece seguendo l’ideologia socialista. I Curdi aleviti negli anni ’70 dominavano il movimento di sinistra turco. Nel 1969, fu creata la Società Culturale Rivoluzionaria dell’Est, il DDKO (acronimo turco), un primo movimento politico che mescolava marxismo e nazionalismo curdo e che mobilitava i giovani in nome della giustizia sociale. Interessante notare come il DDKO, non nacque direttamente nella regione curda, si sviluppò infatti prima a Istanbul e Ankara per poi diffondersi a Diyarbakir e nelle altre città curde. il  DDKO non riuscì, tuttavia, a creare un fronte unito e unico contro lo Stato. Quest’ultimo temendo una crescita di organizzazioni di questo tipo, reagì molto duramente distruggendo il loro potenziale organizzativo. Numerosi leaders curdi furono imprigionati e alcuni fuggirono in Europa, da dove cercarono di dare un respiro internazionale all’autonomismo curdo.

La reazione di guerriglia degli anni ’80-’90 diventa comprensibile se si tiene in considerazione che, in seguito al colpo inferto dallo Stato al tentativo di indipendenza curda nel 1980, venne applicata la legge marziale nel sud est del paese. Questa era la scusa per eliminare arbitrariamente ogni resistenza all’assimilazione quasi coatta della nazione curda. Gli esponenti del nazionalismo furono arrestati e sistematicamente torturati, le condizioni di prigionia erano molto dure, tanto da portare a scioperi della fame e suicidi di plateale protesta politica. Non solo, ma anche a livello sociale l’assimilazione forzosa fu pesante, i turchi tentarono di convincere i curdi attraverso l’impoverimento e l’imposizione di un unico modello culturale e scolastico, vietando le pubblicazioni in curdo.

Nel 1983, come reazione all’imposizione marziale, dopo lo scioglimento dei partiti, tra cui il DDKO, emerse il Partito dei Lavoratori del Curdistan, il PKK nel suo acronimo turco. Il leader Abdullah Öcalan, aveva già militato nel DDKO, ma creò tramite il proprio partito uno strumento di reazione militare allo Stato turco. L’effetto principale del movimento di Öcalan fu politicizzazione ulteriore del nazionalismo curdo all’interno del quadro marxista-leninista. Durante gli anni più duri della legge marziale, egli si rifugiò in Siria e in Libano, dove riuscì a riunire delle forze di guerriglia creando un efficace network internazionale. Il fine ultimo della lotta di Öcalan era la distruzione della divisione sociale in favore di uno Stato curdo socialista. Per adempiere  ciò, iniziò una guerra asimmetrica a danno delle autorità turche, che prendeva però di mira anche la popolazione. Il PKK non tollerava il moderatismo, i curdi convertiti erano considerati come dei nemici e per questo venivano assassinati. All’interno del Partito, non era tollerata nessuna opposizione, così come a livello sociale. Tutti gli istituti scolastici erano dei bersagli in quanto erano lo strumento attraverso cui Ankara diffondeva la propria “turchizzazione”. Il PKK, in generale, imponeva in qualche modo una devozione generalizzata alla causa curda, una militanza, anche silenziosa, di tutti, anche di coloro che non avrebbero spontaneamente partecipato al combattimento. Alle famiglie veniva richiesto di concedere un figlio o una figlia perché diventassero dei combattenti. Non esiste, oggi, zona o famiglia che non porti i segni del conflitto, intere generazioni sono nate all’interno di questa società e cultura radicalizzata e violenta.

I Curdi dunque erano coinvolti in una guerra senza quartiere contro la Repubblica, a cui questa rispondeva colpo su colpo, con forse un vantaggio in più. A livello interno ed esterno, lo Stato turco poteva dipingere i curdi come dei barbari assassini, e le operazioni del PKK offrivano poche contraddizioni a tale definizione.

Le dure imposizioni sociali del PKK impedirono la realizzazione del richiamo alla violenza di massa. La regione curda era stata messa a dura prova sia dalla legge marziale che dalla militanza. Quando nel 1999 la Turchia riuscì ad arrestare Öcalan durante un soggiorno a Nairobi, l’insorgenza protratta dei Curdi contro lo Stato si interruppe. In tribunale, durante il proprio processo, Öcalan, di fronte all’impossibilità oggettiva di concretizzare il separatismo, annunciò di voler cooperare con lo Stato per la risoluzione pacifica della questione curda. Egli reinventava se stesso e il partito in un’organizzazione più pacifica, civile e democratica. Al Congresso del Partito, tenutosi nel 2000, in Iraq veniva chiesto ai militanti di rinunciare alla violenza e portare vanti l’autonomismo curdo senza avvalersi delle armi.

Questa rapida e, ammettiamolo, un po’ semplificata storia della questione curda in Turchia permette di capire meglio la forza, la tenacia, con la quale il YPG e il YPJ, i bracci armati del PKK, stanno combattendo oggi sul fronte siriano e con la quale hanno liberato Kobane.

L’opposizione al Califfato riapre il discorso religioso visto che l’ISIS propone un modello statale completamente radicato nell’Islam sunnita, non disposto a tollerare alcun tipo di minoranza né religiosa né etnica. I Curdi si sono ritrovati dunque sotto la minaccia dell’assimilazione forzata verso una realtà che non gli appartiene. Non solo, ma la destabilizzazione della Siria, in seguito alla guerra civile scoppiata nel 2012, ha dato qualche speranza ai Curdi di poter ottenere almeno in parte un territorio autonomo. La presenza dello Stato Islamico (cosiddetto) impedisce invece di realizzare l’autonomia.

Tuttavia, bisogna tenere conto che respingere l’avanzata dei combattenti dell’ISIS permette ai Curdi di acquisire una nuova rilevanza internazionale. Il sostegno ricevuto da parte degli Stati Uniti e dalla Coalizione internazionale, ha destabilizzato gli equilibri regionali. Il rifornimento di armi e supporto logistico ad un gruppo che fino a quel momento era alla stergua di un manipolo di terroristi, permette al PKK di rivedere la propria posizione internazionale e di poter avanzare, in un futuro prossimo, delle rivendicazioni politiche maggiori per quanto concerne l’autonomia da Ankara. Se dunque i confini del Medio Oriente dovessero essere ri-disegnati, sicuramente l’aiuto che i Curdi stanno fornendo nella lotta al nemico comune saranno, forse, tenuti in grande considerazione.

Nel territorio siriano l’impegno dei Curdi non piace alla Turchia, la cui posizione all’interno del conflitto è sempre più ambigua. L’impegno internazionale della Repubblica contro il Califfato potrebbe essere una copertura per attaccare, dalla Siria, i combattenti dell’YPG/YPJ, invece dei combattenti dell’ISIS. Il segno più evidente del malcontento turco nei confronti dei curdi, si esprime nel costante bombardamento dei Curdi siriani, tanto che i Curdi di Turchia hanno accusato il governo di fornire armi e sostegno al Califfato per neutralizzare quanto prima la minaccia curda. Che sia vero o no, la Turchia ha comunque assistito alla decimazione, da parte dell’alleanza tra Putin e Assad, dei gruppetti che aveva sostenuto in Siria. La Russia infatti ritiene che la battaglia curda sia svolta in modo più pragmatico, rispetto alle esitazioni internazionali della Turchia. Il conflitto mai veramente sopito tra Repubblica e PKK rinasce dunque dalle sue ceneri, con la differenza che allo Stato attuale la Repubblica è in una posizione internazionale nettamente svantaggiata, mentre la forza regionale, sociale e politica del PKK è in ascesa.

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