Concorsi

Inchiostro a volontà 2017: “Memorie dal bianco”

di Federico Angriman

Le setole della spazzola le sentivo ormai come parti del mio corpo. Mille dita affusolate che ritmicamente e con violenza raschiavano sporcizia e vita dai tessuti che toccavano. Poi l’acqua tiepida sembrava dare sollievo al cotone o alla seta appena strappati dal proprio passato, dalle proprie storie. Le bolle di aria e di sapone che risalivano a galla erano le ultime parole che le stoffe esalavano, prima di dimenticare tutto e ripristinare la propria innocenza originale. Tutto tornava del proprio vero colore, come se nulla fosse mai stato. Pagine bianche da riscrivere ancora e ancora, e ancora e ancora da cancellare.

Forse esageravo coi pensieri, questa povera lavandaia, e questo era solo un castello che mi ero costruita attorno per dare un senso più profondo ad un lavoro, o ad una vita, che non era nulla più della realtà materiale e operaia che chiunque vedeva quando apriva la porta del negozio e sbirciava oltre il vetro che stava dietro al balcone. Mentre lasciavano la borsa di vestiti o di coperte o di tappeti spesso mi lanciavano sguardi perplessi, divisi tra la curiosità, (Forse per il mio aspetto? Forse per il disarmante agio con cui mi muovevo tra i mille tessuti che ogni giorno mi abbracciavano) e la paura che potessi estrapolare informazioni vitali e incriminanti dai loro capi per poi denunciarli ai propri cari ed amici.  Follia.

Avevo altro a cui pensare.

Anzi no, avevano perfettamente ragione. Spendevo ogni minuto ad osservare le macchie che segnavano il bianco perfetto dei lenzuoli, i resti dei trucchi sugli asciugamani. Il profumo di vita che ognuno emanava prima di essere spazzato via dalla violenza dei detersivi. Sognavo di vivere le mille vite che le poche mura tra cui ero imprigionata per più di dodici ore al giorno mi impedivano di avere; chi mi poteva biasimare? Mi trasformavo e in un attimo mi calavo nelle infinite vesti che mi circondavano e ne ripercorrevo all’indietro i passi.

La coperta che avevo ai piedi l’aveva portata un signore distinto sulla trentina. Era entrato in negozio con un completo quasi certamente fatto su misura, la barba ben curata e l’atteggiamento di chi vuol far vedere di essere di fretta e non vuole relazionarsi troppo con chi lo serve. Quella coperta bianca invece doveva essere la macchia che inquinava il quadro perfetto che aveva costruito attorno alla sua persona. Sembrava quasi non gli appartenesse: il profumo era femminile e particolarmente giovane, e lo stampo esatto di una bocca fatto col rossetto in un angolo toglieva ogni dubbio riguardo a chi le avesse abitata fino a qualche ore prima. Forse era proprio per quella macchia rossa che le aveva portato la coperta, per cancellarla per sempre dalla sua vita. Forse doveva nasconderla a qualcuno.

Questa era facile da immaginare. Lui era un imprenditore, traviato dai ritmi frenetici della città, e assuefatto dalla libertà che gli sembrava di avere e dai primi soldi che aveva cominciato a raccogliere. E Lei invece aveva fiutato tutto questo. L’atteggiamento non era stato certamente pacato in quel bar, e immaginare la persona dietro a quelle vesti non era stato difficile. Lei lo aveva avvicinato, Lui, davanti agli amici, aveva fatto il suo gioco. La notte l’avevano passata insieme, ciascuno pensando a se stesso; l’uno plaudendo alla sua abilità e al suo successo, l’altra ammirandosi negli occhi di Lui. Ma quella coperta nascondeva qualcosa di più, lo sentivo. Doveva essere successo la mattina. Lei si era svegliata, con un “Buongiorno” e un bacio che da tanto le mancavano, almeno dall’ultima volta che suo padre aveva pensato fosse abbastanza piccola da aver bisogno di almeno un viso amico al risveglio, in un mondo che la voleva inghiottire. Lei non aveva mai avuto il coraggio di dirgli quanto le mancasse quel piccolo gesto. Lui invece si era svegliato prima. La notte scorsa non si era accorto di quanto Lei fosse bella. Di una bellezza rara, quella che non vorresti mai concedere a una rivista o a una foto perché nessuno la potrebbe capire se non lì e in quel momento. Avevano pensato di amarsi per qualche attimo, senza dire una parola. Ma Lui credeva di sapere di avere un grande futuro davanti, troppo grande per una donna sola. Lei credeva di sapere di essere lì per interesse e per nulla di più. Si rivestirono, scambiarono qualche parola, Lei aveva baciato il letto, convinta che Lui volesse un ricordo di quanto era stato. Ma aveva torto.

 La coperta ora era nell’acqua. Le mie mille dita grattavano via quell’amore irrealizzato. Lui adesso correva chissà dove, con lo stesso atteggiamento di quella mattina; Lei forse studiava o forse lavorava, senza sapere cosa aveva perso; senza sapere che dietro al bracciale nuovo che Lui le aveva regalato, e ad un numero in più in rubrica, si nascondeva un potenziale futuro.

La macchia era sparita. Misi da parte la coperta; poi l’avrei asciugata.

A cosa toccava ora? La pelliccia della vedova che abita di sopra, probabilmente regalatale dal “fu” marito, sempre intonsa, ma comunque perennemente a farle compagnia tra le mura della lavanderia (che dovesse lavare via sensi di colpa che solo lei vedeva?), o lo zaino da bambino che sbucava dal fondo del cesto. Era pieno di buchi, lavarlo di certo non lo avrebbe reso utilizzabile. Avevo pensato di dirlo alla signora che lo aveva portato ma l’imbarazzo di Lei mi aveva fatto cambiare idea. Sicuramente li aveva visti anche Lei i buchi. Probabilmente aveva anche provato a ripararli o a cercare un nuovo zaino ma quello che aveva preso al figlio diversi anni prima sembrava rappresentare perfettamente la vita della loro famiglia: fragile, lacerata, fatta da vecchi colori ormai scomparsi. Una realtà che Lei provava sempre a negare, promettendo di tutto al figlio, ripetendogli che ogni cosa vecchia sarebbe scomparsa da un giorno all’altro. Ma questo non succedeva mai e Lui si arrabbiava. Lei pensava che il piccolo non la potesse più sopportare, e piangeva, mentre il piccolo soffriva perché credeva che Lei non l’amasse.

Non si parlavano tra loro, avevano troppe ferite in cui infilare lame.

Lasciai lo zaino nella bacinella dell’acqua calda e mi cadde all’improvviso lo sguardo sui miei vestiti. La divisa mi era stata consegnata il primo giorno di lavoro, splendida, di un bianco lucente. “Devi mostrare a tutti coloro che entrano da quella porta quanto curiamo noi i nostri panni!”, mi era stato detto. E io li curavo al meglio delle mie capacità, al limite dell’ossessione. Controllavo continuamente che il colore e la consistenza non si alterassero, che il tessuto non perdesse la forma. Ormai mi ero sottoposta a quelle vesti. Avevo dato tutto quello che avevo a quelle vesti. Da qualche anno avevo smesso di curarmi della pelle che si rovinava sotto a quelle morbide e candide maniche, continuamente attaccata dall’acqua calda e dai detersivi. Non facevo più caso alle rughe che segnavano un volto gonfiato dal vapore di quelle sale, appena sopra al perfetto collo a V della divisa. Mi faceva ridere, ma in certo senso avevo smesso da molto tempo di vestire i miei stessi panni. Non ricordavo neppure più l’ultima volta che guardandomi lo specchio avevo rivolto lo sguardo al mio viso o al mio corpo anziché a ciò che indossavo.

Ma finalmente lo zaino era pulito. Tempo di passare ad una nuova storia.

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