Concorsi

Il giardino – Marco Basset

di Marco Basset

A volte mi chiedo se ti ricordi ancora di quella grigia mattinata di novembre. La pioggia cadeva inclemente da ormai quattro giorni, eppure riuscii a convincerti ad uscire lo stesso. Camminavamo spediti per le vie del centro, con i piedi intirizziti dal freddo, cercando di evitare le pozzanghere e gli schizzi dei taxi pieni di turisti. “Manca ancora molto?” mi chiedesti. La strada cominciava a salire lungo il colle. Dietro di noi, i ruderi di un’antica civiltà si stagliavano silenziosi contro il cielo plumbeo, come le ossa consunte di una belva mastodontica divorata dal tempo. Quando ero piccolo passavo il tempo gironzolando tra i resti dell’antico mercato, alla ricerca delle tracce dei fantasmi di quegli uomini che avevano abitato quelle pietre. Per questo motivo conoscevo i segreti della mia città e sapevo bene che i tesori più preziosi erano sepolti nei luoghi più impensati. Là, su quel colle, lontano dalle bancarelle e dagli schiamazzi delle visite guidate, tra il giardino in cui crescono gli agrumi e la vecchia chiesa, si ergeva, austera e silenziosa, l’Ambasciata. La pioggia s’era fatta strada tra le pieghe dei vestiti e stringeva nella sua liquida morsa le nostre giunture. Un grande portone in legno trionfava all’entrata, impedendo a qualunque visitatore l’accesso al palazzo. L’unico spiraglio che s’apriva su quel mondo nascosto era una vecchia serratura arrugginita. “Ci siamo” sussurrai dolcemente al tuo orecchio. Vedendoti avanzare incerta per porre il tuo occhio all’altezza di quella fessura, nella mia mente andava già dipingendosi l’immagine che si dischiudeva al tuo sguardo: un giardino lussureggiante, ricco di alberi da frutto e fiori di ogni colore, ed un pergolato che si faceva strada nel centro tra due file di
bianche colonne avvolte nel sicuro abbraccio delle foglie smeraldine di un rampicante screziato di boccioli purpurei. In fondo alla cornice arborea, un balconcino in marmo affacciava sulle strade della città. Lì, perfettamente incastonata tra le fronde dell’edera e l’orlo metallico della
serratura, s’intravedeva la cupola della Basilica che scintillava colpita da un raggio di sole che, timidamente, sembrava farsi spazio tra le nubi. Lontano, la chiara voce di una campana suonava le nove. In quel momento, nel vedere il tuo volto da bambina sorridere sotto la pioggia, le catene che sentivo stringere il mio cuore s’allentarono. Allora capii di essere innamorato. Forse, se anche tu conservassi lo stesso ricordo, capiresti perché alla fine ho agito così. Non sono certo di sapere quanto tempo sia passato. Ricordo solo di essermi svegliato quella mattina, di
essere sceso dal letto e di essermi tolto il pigiama per andare a scrostarmi di dosso l’aria pesante ed umida della notte con una doccia calda. La serranda della finestra, ancora abbassata, lasciava trapelare dai fori aperti i primi raggi del sole di maggio. Ma giunto alla porta della stanza, non appena ne presi in mano la maniglia, una consapevolezza terribile s’impadronì delle mie viscere. Un peso così gravoso da rendere impossibile ogni ulteriore movimento, anche una semplice rotazione del polso. Avevo infatti capito che non sarei mai stato grado di scendere in strada ed attraversare la piazza per andare dal fruttivendolo per comprare la verdura. Il rincorrersi delle lancette dell’orologio a muro faceva da eco al susseguirsi frenetico dei battiti del mio cuore che, come un puledro impazzito, sembrava voler fare a pezzi il recinto in cui era stato rinchiuso per perdersi nella verde prateria. Lentamente, voltai il capo verso i dodici metri quadri dove si condensava la mia vita extra lavorativa. Un odore acre e stantio si levava dai cumuli di vestiti ammassati ai piedi del letto e sulle sedie in disordine. La scrivania era disseminata dei libri che mi ero proposto un tempo di leggere, ma che non avevo mai iniziato. Tra questi, erano disperse le tazzine di innumerevoli caffè sui cui fondi incrostati s’intravedeva un nero avvenire. Sul pavimento, sul tavolo, sul davanzale, come minute piccole lapidi ritorte si ergevano i mozziconi
di centinaia di sigarette. Rimasugli ambrati di tabacco formavano un folto tappeto sul comodino accanto al letto ed in alcuni angoli delle lenzuola. All’esterno, iniziava l’orchestra dei motori di chi cominciava la giornata. Ma quella giornata per me era impossibile da cominciare. Così, a passi incerti, tornai indietro verso il letto per rinchiudermi nel soffocante abbraccio delle coperte. Quando arrivasti tu era ormai già sera. Non so ancora chi ti avesse aperto la porta, ma ricordo il suono chiaro dei tuoi passi lungo il corridoio seguito dal tonfo della borsa gettata in un angolo. Bussasti preoccupata, chiedendo cosa fosse successo. Poi ti sentii piangere, gridare di rabbia, tirare calci a quella porta nella speranza che venisse giù ed infine, in silenzio, andare via. C’era stato un tempo in cui tu, e tu sola, avevi trovato uno spiraglio per vedere cosa nascondessi nel mio cuore. Una sorta di buco della serratura, attraverso il quale potevi vedere ciò che io decidevo di mostrarti. Ma quel cuore era stato sigillato e nessuno vi sarebbe più potuto accedere. Del resto era meglio così, dato che non avevo più la forza di rassettare un cuore che assomigliava sempre di più ad un letamaio. Forse era anche per questo che avevo deciso di mettere una toppa sulla serratura della mia stanza. Alla fine non volevo che vedessi davvero di cosa fossi capace. Poi questa mattina sono stato svegliato da un nuovo odore che aleggiava nell’aria della stanza. Un caldo aroma di cannella e mandorle si faceva strada tra i miasmi della mia sporcizia che, come fantasmi, avevano infestato quell’ambiente nei giorni passati. Di soprassalto, mi sono gettato giù dal letto, cercando di capire da dove provenisse quel profumo. Veniva dal corridoio. Lentamente, col timore in gola di ritrovarti lì, a spiarmi attraverso la serratura, ho tolto il nastro adesivo che ne nascondeva l’apertura. Ma dall’altra parte c’era solo una parete bianca. Allora mi sono appiattito contro il pavimento, cercando di sbirciare da sotto la soglia della porta. La sorgente di quel profumo sembrava essere stata adagiata su un piattino davanti l’uscio. Mi è tornato allora in mente quel paesino arroccato, fragrante dell’aroma dei dolci della tua infanzia. Nascosta in quel ricordo, si era poi fatta strada l’immagine segreta della cripta in cui, con l’inganno, mi avevi portato. Sulle spoglie pareti di roccia, era raffigurata con colori sbiaditi dal tempo una Resurrezione di una bellezza e di una forza mai vista. Cristo, risorto e glorioso, spalancava con le sue mani, ancora segnate dai chiodi, le fauci di un enorme e mostruoso serpente, dalla cui lingua si levavano indistinte una moltitudine di anime dannate che pregavano per la loro salvezza. L’artista aveva disegnato quel dio per loro. Un dio che aveva ascoltato il loro pianto ed era sceso dalla croce per liberarli dal loro inferno. D’improvviso, l’idea di un qualcosa, un dio, che non si limitava a guardarmi dal buco della serratura, ma scardinava le porte dell’inferno in cui mi ero gettato, per tirarmene fuori, mi aveva portato a credere che anche dal letame che mi portavo nel petto potesse un giorno germogliare qualcosa di buono. Per troppo tempo avevo cercato di far vedere che anche dentro di me si poteva celare un giardino meraviglioso, proprio come quello che si celava tra le mura dell’Ambasciata. Tuttavia, sapevo bene che il mio cuore era molto più simile a questa stanza in cui, ultimamente, mi ero recluso: un ricettacolo di immondizia e ciarpame. Eppure, anche da lì un giorno sarebbe potuto nascere qualcosa: qualcosa di buono per te, ma, soprattutto, qualcosa di buono per me. Il profumo del dolce continuava a penetrare attraverso la porta. Una nuova contrazione dello stomaco mi stava avvisando che qualcosa era cambiato. Lentamente, ho iniziato a cercare quella chiave che avevo nascosto nei pantaloni. Era giunto il momento di fare quella doccia.

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