Cultura

IV Classificato – “L’incompleto” di Valentina Leoni

 

di Valentina Leoni

 

“Stefano Calliada!”, urla una voce dall’interno dell’aula. Come di consueto, anche per questa sessione di laurea “ottobrina”, l’ingrato compito di chiamare gli studenti spetta al docente più giovane.
Tutti dentro di nuovo, per ascoltare la seduta di laurea. Beati quelli il cui cognome inizia con una lettera tra le prime dell’alfabeto: in un attimo fai le tue cose e sei congedato. Puoi festeggiare subito, mentre agli altri ancora tremano le gambe in attesa del verdetto. Io, che di cognome faccio Sassoli, di lauree ne sentirò ancora qualcuna. Qualunque sia il numero di persone che mi precedono, però, il numero di discussioni di oggi non potrà nemmeno confrontarsi con quelle che ho ascoltato in tutti questi anni. E anche quanto alle mie gambe, ormai tremano più per l’età che per la paura.
La prima volta che mi sono presentato a una seduta di laurea era il 1958, sempre a ottobre. Avevo da poco compiuto 26 anni ed ero anche abbastanza orgoglioso di aver finito gli esami nei quattro anni previsti dal mio corso. Certo, ne avevo perso un paio dopo la scuola superiore, ma i tempi non erano dei più rosei e per potermi pagare l’Università fui costretto a raggranellare il denaro necessario. Bastano pochi minuti di pensieri e Stefano Calliada è diventato dottore, con gli amici che cantano insulti di ogni tipo e i genitori in lacrime: un cliché. I miei, di genitori, mi hanno accompagnato solamente le prime tre volte. Poi si sono stufati e hanno detto che, tutto sommato, la vita era la mia, e che il loro compito di farmi crescere l’avevano già abbondantemente portato a termine. Solo qualche anno dopo, nel 1996, mia madre si presentò di sorpresa alla mia laurea. Forse sentiva dentro di sé che sarebbe stata l’ultima volta, non tanto perché pensasse seriamente che mi sarei finalmente laureato, ma perché dopo pochi mesi avrebbe lasciato questo mondo. Per fortuna non possiamo conoscere il
nostro futuro, altrimenti quella volta forse mi sarei laureato davvero; ma non sarebbe stato giusto.
A chiamare la seconda candidata, Elena Di Masi, esce sempre lui, il docente giovincello, già visibilmente scocciato. Non me lo ricordo negli anni passati: probabilmente non si è laureato in questa Università, o forse non in ottobre. In tutti questi anni, infatti, mi sono sempre presentato alla sessione di ottobre. È il mese migliore per laurearsi, perché permette di finire comodamente gli esami a luglio e dà tempo per preparare la tesi durante l’estate. D’altra parte il mare non mi è mai piaciuto e nei mesi caldi le spesse mura del mio appartamento mi assicurano una frescura introvabile all’esterno. Ora c’è l’aria condizionata anche nel negozietto più sperduto, ma quando ho scritto io la tesi non potevo certo contare su queste comodità moderne. Tra l’altro in ottobre cade anche il giorno del mio compleanno, quindi quale periodo migliore per laurearmi, o almeno provarci? Qualche volta è capitato che la sessione coincidesse proprio con il giorno del mio compleanno, come statisticamente in più di 50 anni è normale che accada.
Mentre la candidata procede con la sua discussione, mi cade l’occhio su un componente della commissione che prima non avevo notato. Si tratta di Angelo Lentini, ormai Professore Emerito, con cui ho condiviso gioie e dolori dei miei anni universitari. Quelli degli esami, ovviamente, perché nel fatidico ottobre 1958 lui si è laureato. Io, invece, non ce l’ho fatta: non appena il solito docente giovincello ha pronunciato il mio nome, improvvisamente ho pensato al fascino dello studente universitario, quell’ultimo baluardo di innocenza che rimane nella vita di ciascun individuo. Dopo, arriva l’età adulta: il lavoro, il matrimonio, la famiglia, la pensione e poi, inevitabilmente, il trapasso. Non me la sentivo ancora. “Qualche mese in più non farà la differenza”, mi sono detto. E sono letteralmente fuggito, lasciando di stucco tutti i presenti, in primis i miei genitori e il povero docente che pochi secondi prima aveva chiamato il mio nome.
Elena Di Masi, nel frattempo, ha concluso la sua discussione. La commissione si ritira e la storia si ripete: i presenti applaudono, alcuni amici cantano, i genitori piangono. In tutto questo trambusto, però, mi sento continuamente osservato. Il loro sguardo non lascia dubbi; si stanno chiedendo: “È proprio lui?”. “Sì, sono proprio io!”, mi verrebbe da rispondere, se solo qualcuno avesse il coraggio di chiedermi se dietro le mie rughe e il mio passo un po’ incerto si cela quello studente leggendario di cui si chiacchiera in facoltà. Addirittura qualche studente più megalomane mi guarda piuttosto irritato: certo non deve essere facile essere privati almeno in parte del proprio momento di gloria a causa di un vecchietto che catalizza la curiosità di tutti.
Il candidato successivo, Giorgio Marino, entra in aula. È l’ultimo prima del mio turno, quindi decido di rimanere fuori: non vorrei mai che la stanza chiusa e le persone presenti mi impedissero di prendere la decisione in completa serenità. Mi guardo intorno, ma non noto nulla di nuovo rispetto all’anno precedente: solo la tesi che ho in mano. Ogni anno la rileggo, ne modifico alcune parti e, ovviamente, cambio l’anno accademico sulla copertina. Lo faccio ormai da più di 50 anni, dovrebbero darmi una laurea ad honorem in storia. Anzi no, sarebbe un incubo: una volta che te la danno in quel modo, la laurea, ce l’hai e non puoi scappare. Al massimo puoi non presentarti alla cerimonia di conferimento, ma è già tua, fine dei giochi. Dall’interno dell’aula sento un applauso più energico del solito. La porta si apre e il candidato esce decisamente soddisfatto: 110 e lode, con menzione d’onore e dignità di stampa. Aveva la media del 30, il ragazzo. Io invece mi sono fermato a 29. Per carità, è un ottimo risultato, ma quel numero non derivava da molti 28 alternati a molti 30. Io prendevo quasi sempre 29. “Il suo orale era buono, peccato per quella imprecisione”, mi dicevano. Oppure “non male, davvero, ma mancava quel qualcosa in più…”. I miei compagni di allora mi chiamavano “l’incompleto” per questa mia caratteristica, e a giudicare poi da come è andata a finire direi che ci hanno azzeccato in pieno.
All’improvviso una voce irrompe nei miei pensieri.
“Ettore Sassoli”, urla il docente giovane.
È arrivato anche quest’anno il fatidico momento. Ora sì che le gambe mi tremano davvero. E non per la vecchiaia.
“Ettore Sassoli”, ripete nuovamente.
Qualche volta il docente incaricato di questo lavoro ingrato mi guardava negli occhi. Sapeva che ero io, e mi sorrideva sperando magari di assistere all’evento epocale della mia laurea. Questo giovanotto (scommetto che non ha più di 30 anni) si guarda invece in giro un po’ spaesato.
“Qualcuno ha visto Ettore Sassoli?”, chiede nuovamente.
Molti si girano nella mia direzione, i ragazzi sghignazzando, le ragazze fantasticando sull’epilogo. Anche io mi guardo intorno, alla ricerca del mio futuro, o forse di una via di fuga rapida. Perché, come ogni anno, la domanda è sempre la stessa: resto o vado via?

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