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Way to Santiago #1: Il “senso” di marcia

Ci sono viaggi verso una meta designata che iniziano con uno scopo ben preciso; viaggi che una meta non ce l’hanno, ma uno scopo sì e per quello si parte, per nient’altro. Poi ci sono viaggi che hanno naturalmente una meta, una destinazione imprescindibile, ma che non si sa fino all’ultimo quale scopo avranno, se l’avranno. Viaggi di quest’ultima sorta ti possono cambiare l’esistenza, l’ho imparato per mia fortuna, a mie spese; sono i viaggi veri della vita, quelli che voltandoti indietro, arrivato a un certo punto, si iniziano a ricordare con più chiarezza, invece di dimenticarli pian piano con il passare del tempo. Si tratta di quel tipo di esperienza che si fa fatica a descrivere, perché non sembra possibile trovare le parole giuste, sembra quasi di compiere un torto, un crimine indegno cercando di cristallizzare certi momenti per fissarli per sempre da qualche parte, che si tratti delle pagine di un diario, di un libro, di un giornale, del rettangolino bianco dello stato su Facebook, del profilo Instagram o di un hashtag. In casi del genere, compiere il viaggio risulta sempre la parte più facile, tornare è la vera impresa. Ci si sente storditi, spaesati, disorientati; il letto in cui si dormiva prima di partire è diventato scomodo, le scarpe e i jeans costrittivi, l’acqua in bottiglia insapore, i vicini di casa estranei, la famiglia parenti, il cellulare un’inutilità. Come esseri disagiati nello stesso mondo in cui prima si viveva con tutti gli agi possibili; tutto sembra talmente diverso da come lo si era lasciato, che non lo si riconosce più, improvvisamente ci si ingrigisce, si diventa passivi, diventa difficile fare tutto. Camminare per strada, perché sono più le volte in cui si va a sbattere contro qualche pedone troppo lento o qualche bicicletta troppo veloce; rapportarsi con le persone, perché si avrebbe voglia di salutare chiunque, augurare a tutti una buona giornata, ma ognuno è troppo preso dagli impegni, dalla stanchezza, dalla vita di tutti i giorni e a malapena alza lo sguardo per rifuggirlo subito dopo. Estranei nel proprio mondo, all’inizio sembra di essersi rimpiccioliti tanto da diventare invisibili e ci si pente di essere partiti. Insomma, perché rovinarsi così? È solo dopo qualche settimana o, come nel mio caso mesi, che se ne iniziano a percepire davvero gli effetti benefici.

Sono passati esattamente cinque mesi da quanto ho rimesso piede su suolo italiano, dopo aver trascorso due settimane fuori dal mondo, metaforicamente parlando, in uno dei viaggi più assurdamente impegnativi e gratificanti che abbia mai fatto, o almeno fino ad ora. Talmente impegnativo che da poco ho iniziato a ristabilirmi, mente e corpo, e ora cerco di scriverne, non essendo riuscita ancora a parlarne come mi sarei aspettata di fare una volta tornata. Come dicevo, le parole in certe occasioni non sembrano “venir fuori”. Perciò questa rubrica sarà, più che una guida, o un diario di viaggio, un modo per me di riprendere possesso dei miei ricordi e di ciò che questo viaggio è stato; per voi di conoscere qualcosa che forse, altrimenti, non avreste mai conosciuto. O almeno, non come l’ho conosciuto io.spain_camino_de_santiago_Molinaseca_104635457

La leggenda narra che la cattedrale di Santiago de Compostela, una delle mete di pellegrinaggio più gettonate d’Europa e del mondo, sia sorta proprio nel punto in cui, dopo la sua morte, nel 40 d.C., è stato seppellito il corpo dell’apostolo Giacomo, trasportato da Gerusalemme fino a quella terra lontana d’Occidente, su una barca guidata da un angelo. Ecco, dunque, il perché del nome Santiago, (in spagnolo San Tiago corrisponde a San Giacomo). La seconda parte del nome, “de Compostela”, deriverebbe invece dall’evento che si verificò secoli dopo la sepoltura dell’apostolo e che si trova all’origine dell’usanza del pellegrinaggio stesso: Pelayo nell’813 d.C. scoprì il luogo di sepoltura di Giacomo seguendo nel viaggio una pioggia di stelle che fece denominare quell’area Campus stellae, e le stelle sono il simbolo, insieme alle freccette gialle, che i pellegrini seguono lungo il cammino per trovare la strada.

Quando si parte per Santiago si vorrebbe portar dietro di tutto, nell’autoconvinzione che in realtà quel tutto non sia praticamente nulla di ciò che si utilizza normalmente. Mi sono imbarcata sul volo diretto in Spagna con 7 kg sulle spalle pensando fosse un nonnulla, e senza sapere che sarei tornata alleggerita, sulle spalle, nel fisico, nel cuore. Uno zaino da 40 litri, una bacchetta per bilanciare l’andatura, un paio di scarponi ai piedi: il kit del pellegrino perfetto.

Aeroporto di Milano-Bergamo, volo diretto a Madrid-Barajas delle 6 e 45; al gate 21 quattro ragazze vestite in modo buffo, con un abbinamento di colori anni ‘80, quattro strati di abbigliamento a cipolla (perché come si fa a sapere che tempo farà a migliaia di chilometri di distanza, in un altro Paese dove per giunta non si è mai stati?), imbarcano i loro bagagli con un entusiasmo tale da infastidire chi a quell’ora vorrebbe solo salire sull’aereo per sprofondare nel sedile addormentato. Tra un pacchetto di patatine alla paprika, un giro d’obbligo alla toilette e qualche chiacchiera nervosa per l’imminente partenza, il tempo passa: è già ora di imbarcarsi. Due hostess spettinate e scomposte ci accolgono a bordo, non parlano un’acca di italiano né di inglese. «Fortuna che ho studiato spagnolo alle superiori», penso e, posso dire ora a posteriori, non poteva trattarsi di un pensiero più corretto. Due ore dopo l’aereo sta per atterrare e dagli oblò si intravede il paesaggio spagnolo con i suoi campi e terreni color mattone arsi dal Sole. Mi basta appoggiare un piede fuori dal portellone principale sulla scaletta instabile per capire che qualcosa è già cambiato e nulla nei prossimi giorni sarà lo stesso. A partire dall’inizio. Brandelli di stoffa e gommapiuma spuntati a bordo del nastro trasportatore nell’attesa dei bagagli, mi suggeriscono che nemmeno il mio zaino ha dormito sonni tranquilli in viaggio. Che sia stato sbranato da un orso, abbia preso fuoco o abbia tentato il suicidio, è indubbio che si tratti di un bel problema: affrontare il Cammino di Santiago senza zaino… è impresa assai difficile. Per fortuna non sono da sola, e con il sostegno morale delle mie compagne di viaggio, dopo la tappa necessaria all’ufficio reclami, riesco a recuperare un nuovo zaino, per giunta più bello del precedente, ¡bendito sea el Corte Inglés!”, (una specie di Rinascente spagnola ndr), e a prendere finalmente l’autobus che ci condurrà a Leòn, nella regione della Castiglia, tappa di inizio ufficiale del nostro Cammino.

340 chilometri. Poco? Tanto? Dipende dai punti di vista. Circa metà del percorso totale che costituisce la cosiddetta “via francese”. “Un bel pezzo”, penseranno molti; “ma nemmeno tutto”, penseranno altri. La verità è che, fin dal primo chilometro non ho fatto altro che chiedermi se per me che stavo facendo solo una parte di tutto quel sentiero lunghissimo, il Cammino avrebbe avuto lo stesso valore, e lo stesso senso. O se un senso effettivamente lo avesse. Con un iniziale senso di inadeguatezza, forse addirittura vergogna per non aver avuto gli “attributi” di imbarcarmi in questa avventura fin dalla Francia. Senza valicare i Pirenei, attraversare le temute mesetas, vedere la bellissima Pamplona e arrivare in Castiglia, invece che bella fresca e riposata, già con le vesciche ai piedi e gli occhi pieni di ricordi.

Eppure dopo tutti i chilometri percorsi, i paesaggi attraversati, le persone conosciute, ora so che per ciascuno il Cammino ha ragion d’essere, e per qualsiasi durata e lunghezza un senso ce l’ha e solo guardandosi indietro e ripercorrendolo passo dopo passo, lo si può comprendere a pieno.

E questi passi nelle prossime settimane cercherò di ripercorrerli insieme a voi.

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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