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Vertov, “L’uomo con la macchina da presa”: l’ultima occhiata prima di spegnere

L’uomo con la macchina da presa è decisamente la visuale frontale ma al contempo periferica di un turista, forse, pure trascinato nelle geometrie sequenziali di una sinfonia urbana, colto impreparato dal dinamismo temporale delle nuove metropoli.
L’autore è Dziga Vertov, regista sovietico che sulle rotaie teoriche tracciate a fondo da Ėjzenštejn posiziona una macchina da presa, curandosi poco o nulla della pericolosità di questo genere di inserzioni: devia il tragitto del padre ideologico del montaggio parallelo verso una diversa concentrazione delle riflessioni cinematografiche sul ruolo dello spettatore, certo colpito dalla pellicola, ma non ingabbiato in doveri politico-ideologici.mediacritica_l_uomo_con_la_macchina_da_presa_290
La sua riflessione è, quindi, un’inserzione, non politica, niente (o poco) ideologica: difatti è non solo narrativa, teorica, ma anche spaziotemporale, nella resa dei conti materiale – un duello – fra regista, inquadrato e spettatore. L’intervallo frapposto tra spettatore e pellicola richiama l’esplosività del realismo nella logica della referenzialità. Dico meglio: il metalinguaggio opera sabotando il realismo, si configura come vero artefice della specificità del cinema di Vertov nel mezzo della folta Avanguardia Sovietica; l’autoreferenzialità ragiona per spazi d’imprevisto ed aperture di senso.
Il film, come precisato, muove da un intento quasi documentaristico, un genere che s’insinua nella realtà dinamica della città post-bellica e ne rimane non solo affascinato, ma decisamente rinnovato. In un discorso metadocumentaristico il regista si domanda quale regione di realtà dovesse legittimamente lasciare fuori dalla ripresa, quale – di necessità – eventualità legittimare all’oscurità del fuori campo. Ma la risposta tira fin troppo l’elastico teorico.
Così persino la macchina ammicca allo spettatore, e quell’ammiccare è richiamato pure dalle persiane di una casa che oscurano/illuminano la realtà al di fuori.cinestesia-il-cinema-muto-suonato-dal-vivo-l-uomo-con-la-macchina-da-presa-dziga-vertov-urss-00167929-001 Una donna in una sequenza imita il movimento che l’uomo-con-la-macchina-da-presa deve compiere per riprenderla, sembra sfotterlo e richiamare la centralità dell’inquadratura. Diverse sono le frontali tra due macchine da presa: il gioco si fa chiaro (riflessi come da specchi) e sembra il gioco di due sguardi che si contengono e contendono l’un l’altro lo statuto di dominatore, contro la condizione di suddito – qual è la macchina che sta riprendendo? Cosa è finzione? Cosa è realtà? Se la macchina ha pretese di indagine ontologica della realtà, quale istanza legittima l’esclusione dell’operatore al di fuori di questa realtà rappresentabile? Chi riprende l’uomo con la macchina da presa? – Vorrei dire provocando disgusto per le frasi fatte: chi rade la barba al barbiere? Di nuovo la vertigine, la stessa provocata dal recidere del cordone ombelicale fra film e cineasta. Questo, dimenticandosi del pudore, tirando giù le tendine-sipario del retro-bottega, mostra il processo artigianale, e non soltanto quello registico, della produzione cinematografica. Non solo interrompe il movimento delle immagini (e mostra solo singoli segmenti di pellicola) ma prima una parte di pellicola e poi l’interno del magazzino in cui il materiale è riposto: quasi l’esposizione (avrà forse dato uno sguardo alla poetica avanguardistica del ricollocamento?) della materialità dell’espressione. Vuole mostrare
 l’uomo all’opera: inquadra i fotogrammi che immediatamente il montaggio (fatto su quello stesso lavoro?) propone nella loro messa in movimento. Addirittura una camera imita il movimento degli occhi (una sorta di continuità di direzione, accordo), in una peregrina presa di coscienza che conosceremo meglio con le discussioni sull’intelligenza artificiale. Al centro uno stupendo montaggio parallelo: il regista lavora materialmente all’ingentilimento dell’immagine tramite appunto il lavoro di post-produzione || in dialogo: il lavoro dell’estetista sulla donna soggetto anche dell’inquadratura, oggetto a posteriori del montaggio. Mostra dei fermo-immagine come evidente dichiarazione di ripresa, anche come una dichiarazione di onnipotenza: è linguaggio che disintegra l’intervallo (prima posto) che lo separa dall’azione. L’omogeneità di azione registica e linguaggio si specchia finalmente nella riflessione metacinematografica. La superiorità del regista sulla realtà è manifesta nell’inquadratura montata con l’uomo sopra l’orizzonte che scorge uno squarcio di città.14956001_10207805776810608_6521946008336270184_n
Alla fine, una sequenza dà abile illusione di una macchina da presa che si compone e si aziona da sola: vuole altrettanto (1) simulare la superiorità dell’interventismo del montaggio sull’inquadratura tutt’altro che incorruttibile; (2) negare al contempo il ruolo del regista/operatore, del quale la macchina farebbe a meno, il che rivela la sua totalità meccanica (fondamentali i richiami precedenti al lavoro in serie nella fabbrica di sigarette); (3) mostrare la vera macchina da presa, l’artefice delle inquadrature sulla macchina del racconto secondo. La finzione si annuncia già all’inizio, con il cinema il palco il sipario l’orchestra il pubblico, ma è una visione che si dimentica, e che riemerge alla fine, con la conclusione aperta di una struttura forse (?) circolare. Ma la domanda è un ecolalia: chi riprende la ripresa?

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