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Editoriale / Valore reale e valore legale

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

 

E’ già difficile stabilire l’eccellenza avendone diretta esperienza: riuscire a farlo per legge è paradossale, anche nel paese della mania giurisdizionale. Quindi: stop alla retorica. Bruciamo i feticci. Il valore legale assegnato alla laurea è una prassi senza eguali al mondo. Ed è prerogativa solo statale: nell’impresa privata tutti sono consci delle diversità che intercorrono tra gli atenei. E’ giunto il tempo che la pubblica amministrazione acquisisca la coscienza che, per puri motivi di efficienza, è necessario abbandonare i sistemi fino ad ora utilizzati.
Il sistema universitario è già stato abbastanza danneggiato dalle riforme che hanno ridotto sia la durata che la qualità degli insegnamenti. Si è cercato di imporre una maggiore produttività dall’alto, senza fornire mezzi per metterla in pratica: ovvio che, a parità di mezzi, il prodotto finale sarà peggiore rispetto a prima.
La stessa natura di “laurea triennale” ha contribuito ad abbassare forzosamente il livello qualitativo dell’insegnamento universitario: corsi più brevi sono più accessibili, ma a questa maggiore offerta non è seguita affatto una cernita generale delle individualità migliori, né delle motivazioni maggiori. Una parificazione ottenuta in tali condizioni non fa altro che svalutare tutti e non aiutare nessuno. Più laureati, ma più ignoranti: le università in cui si entra in cento e si esce in cento sono sempre di più. Le lauree triennali si sono diffuse tanto da rendere alcune università fabbriche di pergamena, oltre che a falsare ogni possibile confronto con le università estere.
Il rapporto tra anni di studio e numero di esami è mutato, con il risultato che molti corsi sono stati divisi e spalmati su vari anni: più esami e meno sessioni, meno ore di insegnamento ma più libri. E materie da preparare in meno di un mese, se ci si vuole laureare in tempo: il cui contenuto, visto il metodo di studio necessario e indipendentemente dal risultato finale, viene nella maggioranza dei casi dimenticato dopo poche settimane.
Alla luce di tutto ciò, è la stessa natura dell’università italiana a richiedere l’abbattimento del valore legale del titolo di studio.
In primo luogo, per sottrarla al ruolo di esamificio in cui rastrellare avanzamenti di carriera: ciò accade nel pubblico, dove è sufficiente far valere il proprio titolo di laurea per avere uno scatto automatico.
In secondo luogo, per eliminare una barriera che potrebbe ostacolare persone potenzialmente più capaci, ma impossibilitate a dimostrare la propria preparazione: quindi realizzare un sistema meritorio che nella pubblica amministrazione sembra ancora un miraggio, nonostante sia sempre sulla bocca di tutti.
Terzo, per tornare alla realtà. Stando alla legge, gli atenei sono tutti uguali. Ma è palese che non sia così, anche agli occhi di chi non conosce la quotidianità universitaria italiana.
In ultima istanza, l’abolizione del valore legale sarebbe un primo possibile colpo per indebolire il potere selettivo degli ordini professionali, per fare si che sia la sola volontà del laureato a fungere da discriminante all’ingresso, intenzionato a farvi parte per motivi sindacali e di tutela, e non certo per poter agire in modi che diversamente gli sarebbero negati.
Chissà se anche per noi giungerà il tempo di uno stato efficiente. Iniziare a gettare le radici di questo possibile miracolo italiano faciliterebbe l’obiettivo. Sempre che qualcuno, in fondo, ci creda ancora.

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