Scienza

Va’ dove ti porta Barnard

Il 3 dicembre 1967 Christiaan Barnard, giovane chirurgo sudafricano, completò con successo il primo allotrapianto cardiaco, inserendo un cuore umano in un paziente umano. Nonostante non fosse né il primo trapianto di organo (Joseph Murray eseguì con successo quello di rene nel 1954) né il primo effettivo di cuore (nel 1964 James Hardy mantenne in vita un paziente terminale per 90 minuti con un cuore di babbuino), il successo dell’operazione diede a Barnard fama e gloria imperiture (anche perché i reni non se li considera mai nessuno). In effetti la personalità carismatica e ambiziosa del chirurgo, unita a una vita certo non monotona, contribuirono a creare l’immagine di un vero e proprio eroe scientifico moderno. Tuttavia, tutte le storie ben costruite presentano luci e ombre.

Christiaan Barnard nacque l’8 novembre 1922 a Beaufort West, in provincia di Città del Capo. Come richiesto in qualsiasi mitopoiesi che necessiti di un evento tragico per forgiare l’eroe, la morte di un fratello a tre anni per una malattia cardiaca congenita fu uno dei motivi che spinse il giovane a perseguire gli studi di Medicina. Appena diventato dottore, Barnard iniziò a distinguersi per la sua abilità chirurgica, che gli consentì di sviluppare una nuova tecnica per trattare l’atresia intestinale, una condizione altrimenti fatale nei neonati. Grazie a questo successo, il chirurgo in erba ottenne una borsa di studio di due anni in Minnesota, sotto la supervisione di Owen Wangensteen. L’incontro con Walt Lillehei, pioniere della chirurgia a cuore aperto, lo fece però interessare a quest’organo.

Completato il periodo americano, Barnard visitò nel 1960 il laboratorio di Vladimir Demikhov a Mosca. Lo studioso russo, che rientrava a tutti gli effetti nello stereotipo dello scienziato pazzo, aveva già fondato la branca della trapiantologia con esperimenti tanto grotteschi quanto fondamentali per il campo: significativo fu il suo trapianto di testa canina, che portò alla celebre foto del suo cane a due teste (non tanto diverso da Cerbero). Lasciando le implicazioni pratiche e morali a Nabokov e al suo Cuore di cane, il lavoro del russo influenzò Barnard, che una volta tornato in patria si convinse a sperimentare il trapianto cardiaco su animali, spinto dai progressi tecnici che si stavano compiendo in tutto il mondo.

Il chirurgo sudafricano descrisse il suo primo trapianto umano in una delle sue due autobiografie, Una vita. A leggere il racconto “ufficiale”, sembrerebbe che ci si trovi in un film americano con annessi cliché; a dire il vero, moltissime voci e dicerie circondano l’evento. Tra le varie curiosità si dice che Barnard ebbe un’illuminazione nel sonno il pomeriggio prima dell’intervento (quasi a dire In hoc signo vinces), quando comprese all’ultimo come modificare la tecnica chirurgica da adottare. Patetismi a parte, resta però il fatto che l’operazione fu un successo e grazie al cuore della giovane Denise Darvall, morta in un’incidente, un droghiere cardiopatico di nome Louis Washkansky poté sopravvivere fino a 18 giorni dopo il trapianto, soccombendo infine ad una polmonite dovuta alla soppressione necessaria del suo sistema immunitario. Questo genere di complicazione, nonostante le aspettative di vita decisamente più alte, è tuttora presente nei pazienti trapiantati, che diventano purtroppo equilibristi in bilico tra un rischio di eccessiva o insufficiente immunosoppressione. 

Louis Washkansky

Louis Washkansky dopo il trapianto

L’intervento rappresentò dunque quella che si definisce oggi in ambito scientifico un’importante proof of concept (“prova di concetto”) dimostrando, come esclamava Gene Wilder in Frankenstein Junior, che il trapianto cardiaco si può fare. L’avvento successivo delle ciclosporine, potenti farmaci immunosoppressori, ridusse notevolmente la mortalità a breve termine dei trapiantati, permettendo che l’operazione potesse diventare di routine.

Barnard, che fu immediatamente tempestato di onori, rispettò come da copione la formula antica che vuole l’eroe nobile corrotto dalla hybris e dalla gloria. Colpito dall’artrite reumatoide, una malattia che a quei tempi portava alla deformazione delle mani, il chirurgo fu infatti costretto ad abbandonare il suo campo. Per il resto della sua vita si dedicò invece a due dei suoi altri interessi principali: la ricerca sull’invecchiamento e le donne. Nel primo ambito perse grandissima parte della sua reputazione sponsorizzando il Glycel, una costosa crema prontamente ritirata dal mercato per la sua tossicità; nel secondo invece, complici anche i media, riuscì ad avere grande successo. Egli stesso, ancora sposato, scrisse con modestia dei suoi flirt con numerose celebrità, tra le quali Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Di conseguenza i suoi tre matrimoni, dei quali l’ultimo con una modella diciottenne, finirono tutti con annesso divorzio e Barnard, a cui era stato anche negato il Nobel dato invece a Murray, morì da solo nel 2001, colpito da un attacco asmatico mentre era in vacanza a Cipro.

Nonostante l’indubbia importanza del trapianto cardiaco, pietra miliare della Chirurgia, l’intera vicenda solleva delle questioni quantomai importanti: la Scienza è piena di casi dove piccoli ma decisivi passi di molti portano infine alla grande svolta da parte di un solo individuo. È corretto che il carisma del singolo prevalga sul merito dei più, sconosciuti? Ma soprattutto, è giusto costruire ad arte eroi in un mondo che sembra negarne l’esistenza? L’unica cosa certa è che in certe questioni il cuore non dovrebbe mettersi di mezzo.

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