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URBEX Pavia – la città in un’altra prospettiva

La sensazione, per chi viene da fuori, è che Pavia a un certo punto si interrompa. In un attimo, dalla città abitata, con case e palazzi, anche storici, si passa alla campagna non meglio definita, la distanza tra le persone sembra essere dilatata, una realtà molto più ampia e aperta della concentrazione che si esperisce tra Lungo Ticino, Duomo e Piazza della Vittoria. Sembra, dunque, che appena fuori dalla città forte della sua attività intellettuale esista una realtà che ha perso attrattiva, che non ha più motivo di essere frequentata. Permangono alcune strutture, ma sono silenziose; a primo impatto si direbbe che l’attività debba ancora riprendere, magari proprio la mattina seguente, ma a ben guardare le strutture sono vuote. O meglio, svuotate. Il perimetro urbano è infatti oggi costellato da enormi edifici, cimiteri industriali, testimoni della passata forza economica di una città che oggi gira intorno all’Università e agli stabilimenti di produzione del riso. Questa è la storia che racconta Marcella Milani con la sua mostra fotografica URBEX PAVIA, inaugurata il 23 giungo nello Spazio di Arti Contemporanee del Palazzo del Broletto in Piazza della Vittoria.

URBEX, contrazione di Urban Exploration, è un fenomeno underground che consiste nell’esplorare quelle strutture create dall’uomo e poi abbandonate, la cui riconversione richiede un investimento troppo ingente. Le mete non sono solo gli stabilimenti industriali decaduti per cessata attività ma anche gli ex-manicomi o anche le sedi inutilizzate di ospedali ormai de-localizzati: per intendersi tutti quegli edifici che in Germania sono stati trasformati in discoteche.

Gli urban explorer sono dei fotografi, degli artisti di strada o semplicemente dei curiosi che si rendono in queste zone amene, spesso pericolanti, a proprio rischio e pericolo, con l’intenzione di raccontare, mostrare e anche denunciare la fine del sogno industriale che ha caratterizzato la società europea nel Secondo Dopoguerra.

Marcella Milani è proprio questo, una urban explorer nella città di Pavia. Il suo lavoro mette in mostra sedici edifici in centocinquanta fotografie di stabilimenti industriali e ospedali, simboli di un dinamico passato. Come per esempio, l’ex-Area Necchi, la grande fonderia di ghisa che un tempo produceva tronconi di strade, ferrovie e ponti, convertita poi, dopo la Prima Guerra Mondiale, in casa di produzione delle prime macchine da cucire italiane. Legata a questa l’area NE.CA (Necchi e Campiglio), la zona industriale che comprendeva tra gli altri, le riserie Noè-Traverso e l’oleificio Gaslini-Rizzi. Una zona enorme che però ha risentito del declino e negli anni ’90 è stata obbligata a dichiarare il fallimento. L’Idroscalo, l’edificio rialzato che domina il Ticino alla confluenza con il Naviglio, costruito per permettere la comunicazione rapida con Torino; il palazzo del Mondino, l’ospedale psichiatrico nel quale lavorarono Cesare Lombroso e Camillo Golgi, e anche la ex-Caserma Rossani, che in origine era il Monastero di San Salvatore, che si vede oggi spuntare con le sue finestre rotte in Viale Riviera appena oltre la stazione. Fanno parte della mostra anche edifici meno famosi, come lo scalo ferroviario adiacente all’attuale stazione, nonché le ex-piscine all’aperto, tutte zone dismesse, abbandonate, che fanno però parte del tessuto urbano.

Le fotografie sono tutte in bianco e nero. Una tecnica vincente, dato che aumenta la forza evocativa dell’immagine: una via di mezzo tra nostalgia e malinconia. La mostra combina delle vedute di ampio respiro nelle quali lo stato di abbandono, degrado a detta di alcuni, è solo percepito, insieme ad immagini più dettagliate, dove la decadenza è evidente, fino ad arrivare a cogliere gli elementi tipici della vita di fabbrica ormai diventati desueti, come i cartelli dell’orario di lavoro o le avvertenze per gli operai. Non tutte le fotografie hanno lo stesso formato, una scelta questa che permette di giocare con le sensazioni e con la volontà di documentare. Il coraggio che poi ha portato la fotografa a sfidare i divieti ed entrare all’interno delle stesse aree dismesse, mette lo spettatore in una prospettiva completamente diversa rispetto a quello a cui è abituato: ha adesso accesso a ciò che finora era vietato. Questa mostra cambia la percezione degli edifici che si vedono tutti i giorni, lo spettatore, nonché cittadino, assume una nuova consapevolezza rispetto all’ambiente che lo circonda. Una consapevolezza che ha anche il sapore della denuncia. Una denuncia mista tra quello che si è perso e quello che si potrebbe ottenere di nuovo. Un lavoro, dunque, che apre gli occhi di tutti (non solo dell’amministrazione cittadina) sulla potenzialità che si nasconde dentro i muri di cinta e dietro le finestre rotte dei luoghi abbandonati di Pavia.

Un avvertimento che sembra essere stato recepito, da quanto si evince dagli interventi del Sindaco Massimo Depaoli, l’Assessore Giacomo Galazzo e dal Presidente della Provincia Daniele Bosone, tutti presenti all’inaugurazione. Come cittadini subiscono il fascino, e anche un po’ la nostalgia (per chi ha avuto la possibilità di vedere questi luoghi ancora in piena attività), delle immagini che la fotografa Milani propone, ma da uomini politici sentono il peso della difficile responsabilità economica di una soluzione che permetta la riconversione di questi luoghi, vittime del processo di deindustrializzazione dei piccoli centri urbani.

Interviene anche Mino Milani, lo zio dell’artista, invita tutti a non decadere come le aree ritratte, e a portare un nuovo respiro alla città proprio grazie alla memoria e agli interventi urbani.

Noi abbiamo incontrato tra le sale dell’esposizione Andrea Plebe, un ex-studente dell’Università di Pavia, che ha collaborato con Marcella Milani per la realizzazione del video che ripercorre le tappe che hanno portato alla realizzazione della mostra URBEX PAVIA. Andrea si è laureato nel corso di laurea triennale in Comunicazione Interculturale e Multimediale (CIM), ha partecipato al laboratorio radiofonico di UCampus Pavia e studia ora pubblicità a Reggio Emilia. L’incontro con Marcella Milani è avvenuto per caso due anni fa, quando partecipava come videomaker ad un progetto dell’artista Marco Lodola e di Gianluca Grignani nel quale lei era coinvolta come fotografa. Da quel momento è nata una sinergia molto produttiva.

Con Marcella Milani avete ritratto le zone industriali ormai dismesse che sono oggi al limite del pericolante. Qual è stata l’avventura in questi posti, dietro queste foto che lei ha realizzato?

Lavorare con Marcella è stato davvero fantastico, tra il tetro e l’eccitante. Il mio compito era quello di seguirla nel suo itinerario fotografico, facendo rivivere allo spettatore le stesse emozioni che ci trasmettevano quei luoghi.

Che dire riguardo l’avventura? Tutto è stato avvincente, non mi aspettavo che un posto abbandonato, diroccato e inquietante potesse, attraverso l’uso del bianco e nero, essere così suggestivo, capace anche di rievocare le mansioni degli operai di quei tempi.

Ti sei occupato nello specifico del video, che hai realizzato tra l’altro anche mediante l’uso di un drone, ti ha dato sicuramente la possibilità di vedere le cose sotto un’altra prospettiva che ha poi portato ad una combinazione artistica interessante. Come è stato collaborare con Marcella Milani?

L’uso del drone è stato sicuramente un punto in più per il video, poiché come hai ben detto ci ha permesso di osservare da una prospettiva differente questi luoghi abbandonati anche se spesso era difficile da governare per via delle condizioni climatiche.

Marcella è una persona che a primo impatto può sembrarti tranquilla, in realtà ha una forza inesauribile e credo che questo l’abbia portata fino a dove è arrivata ora. Energica, paziente, generosa, questi sono i valori che compongono la sua persona, il suo habitus.

Avendo lavorato in contatto con la fotografa, percepisci questo lavoro più come una denuncia del processo di de-industrializzazione della città o piuttosto come un incentivo a concentrarsi sulle potenzialità di queste zone?

Penso che questa mostra sia dedicata più che altro a far risaltare le industrie storiche che hanno valorizzato questo territorio, quindi direi de-industrializzazione.

L’esposizione rimarrà fino al 17 luglio 2016 nello Spazio per le Arti Contemporanee e sarà poi donata alla Biblioteca Civica. Sono 4 sale, cariche di storia e di emozioni, un’occasione per riflettere e far riflettere. Merita davvero, soprattutto in queste settimane di studio intense, è anche prevista un’apertura serale settimanale, il mercoledì dalle 21 alle 23.

Che cosa state aspettando?

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Un pensiero su “URBEX Pavia – la città in un’altra prospettiva

  • Maria Rosaria. Cucinella

    Barbara come sempre chiarezza e profondità contraddistinguono i tuoi articoli.
    Questo in particolare trasuda entusiasmo e mette voglia a chi lo legge di andare a visitare subito la mostra.
    Grazie!!!!
    Maria Rosaria

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