BirdmenSerie TV

Once upon a time – Once upon an end

Ogni fiaba ha il suo “lieto fine”. Vero più che mai nel caso di Once upon a time, che ha visto concludersi la sua lunga trama venerdì 18 maggio negli Stati Uniti, mentre in Italia il finale sarà disponibile il 30 maggio sulla piattaforma Netflix. Gli eroi delle favole (e non solo) hanno ottenuto lo sperato avverarsi dei loro sogni, ma i fans posso dirsi veramente soddisfatti del risultato complessivo?

Torniamo imagesun attimo indietro. Era il 25 dicembre 2011 il girono in cui debuttava in Italia la nuova creazione di Edward Kitsis e Adam Horowitz, già sceneggiatori di una serie di successo quale Lost, ed è stata chiara da subito la loro intenzione di voler proporre per un pubblico adulto il contenuto di un prodotto prevalentemente per l’infanzia, ovvero le fiabe. Esse si sono caricate di retroscena complessi, messi in comunicazione l’uno con l’altro in modo da far mutare i protagonisti da “tipi” a “personaggi” a tutto tondo. Un passaggio da maschera a volto potremmo dire. Pertanto la Regina Cattiva (Lana Parrilla) rimane un’antagonista, ma il suo voler far del male a Biancaneve è ben motivato dal dolore causato dalla seconda alla prima. Dal canto suo, Biancaneve (Ginnifer Goodwin) ha perso l’innocente candore, divenendo un soggetto che all’occasione è in grado di far del male. Che dire poi di Tremotino (Robert Carlyle) che nella sua lucida follia diviene un personaggio machiavellico, acquistando anche tratti profondamente umani, quali la codardia, un’innata sete di potere e una spiccata ironia che piace allo spettatore al punto da temerlo e apprezzarlo al contempo.

Nel voler dare questo spessore, abbiamo detto risulta vitale portare in scena il passato dei protagonisti senza che ciò risulti ingombrante. Da qui la felice idea di mettere in gioco in quasi tutti gli episodi (le eccezioni si contano sulle dita di una mano) flashback che rendano conto del vissuto, generando un movimento biunivoco tra passato e presente, senza stancare i telespettatori e, soprattuto, mantenendo viva la loro attenzione con colpi di scena, scavi in profondità e qualche scandalo che non guasta mai, come il comportamento della regina Eva (nell’episodio Passato e presente della seconda stagione) che, nonostante incarni il “buono” di turno, è in grado di macchinare per il proprio interesse senza troppi scrupoli.6470-a-950x0-2

Finora solo i lati di una prima stagione che prometteva molto, pur lasciando intravedere dei possibili difetti nella recitazione più che nella trama, tragicamente decaduta in seguito. Josh Dallas (il principe azzurro, l’amore di Biancaneve) non riesce ad entrare nel suo ruolo. Ogni qualvolta la cinepresa gli si metta di fronte, ogni suo primo piano, per lui è buona occasione per mostrare un volto afflitto da principe infelice in cerca del suo amore. Che dire poi di Emma (Jennifer Morrison), la protagonista ufficiale, il frutto del vero amore, la Salvatrice che presenta sempre un volto venato d’ira repressa e il cui sorriso non sempre convince per spontaneità e realismo. Fortuna che il cast includa Lana Parrilla e Robert Carlyle le cui abilità sono indubbiamente migliori: loro riescono a tenere la scena, a suggerire stati emotivi cangianti e complessi.

Tuttavia l’arrivo della quarta stagione segna una prima ed evidente incrinatura. L’unità strutturale che aveva dato forma alla narrazione fino alla fine della terza stagione entra in crisi. Sembra, infatti che non si sia più in grado di coniugare l’entrata in scena di nuovi personaggi (entrata spesso stimola da voluti riferimenti al mondo Disney) con lo sviluppo dei vecchi. Entrano Elsa ed Hanna da Frozen – Il regno di ghiaccio, e sembra dileguarsi lo spessore psicologico che caratterizzava le altre figure. Tremotino collassa verso uno stereotipo di cattivo che agogna il potere fine a sé stesso, senza una ragione apparente che non sia il bearsi del medesimo (nell’episodio Un uomo migliore della quinta stagione, l’acme di questo collasso), Cora (Barbara Hershey), la madre di Regina, ottiene un perdono che da una condanna all’Inferi le permette un’ascensione ai Cieli nel giro di quaranta minuti (episodio Sorelle, quinta stagione), senza profondo scavo interiore. I “personaggi” ritornano “tipi” e sembra diventare più importante per gli autori far andare avanti la vicenda anziché trovare un degno finale.

Inizia dunque una serie di cicli e ricicli di idee in un percorso a spirale che porta ad un nulla di fatto. La trama, insomma, si incarta su di sé. Il colpo più grosso arriva con la settima ed ultima stagione. Necessario un cambiamento radicale si opta per un reboot volto a cercare di salvare il salvabile. Vengono mantenuti pochi “vecchi” attori e si dà alla vicenda un cambio di rotta che altro non è che un ritorno al principio, poiché il posto del piccolo Harry (Jared S. Gilmore e  Andrew J. West) e ricoperto ora dalla piccola Lucy (Alison Fernandez), viene mantenuta l’ormai famigliare maledizione, il sortilegio oscuro, che impedisce il lieto fine e lo spettatore viene strangolato da un orizzonte di attesa asfittico, perché sa già fin troppo bene come andrà a finire.

L’ultimo episodio (Leaving Storybrook), in particolare, lascia basiti. Dopo un numero spropositato di eventi nel ristretto spazio di un episodio, la serie ha avuto una sua conclusione dal sapore dolce amaro, in un rocambolesco susseguirsi di avvenimenti che procedono per addizione piuttosto che per un’armoniotumblr_mmss2rWTSg1qh843ho1_500sa subordinazione. Colpisce il decadimento totale di un interessante spunto narrativo introdotto sul finir della quarta serie e ripreso nella sesta: la presenza di mondi paralleli. Lo spunto sembrava particolarmente efficace e anche moderno viste le potenzialità dello schermo: poiché di ogni fiaba esistono più versioni vi saranno più di una Regina Cattiva, più di una Biancaneve e così via. Ma alla fine si è venuto a creare un doppione che intralcia la trama, polarizzandola in un gioco per cui o tutto è bianco o tutto è nero, annullando così lo spessore che la serie prometteva. La stessa redenzione di Tremotino suona quasi come l’inevitabile nota di uno spartito scritto da molto tempo, procrastinato fino all’eccesso. Particolare la scena finale. Di nuovo un incoronazione (come nell’episodio Mai più un lieto fine, l’episodio pilota), nello stesso luogo della prima, con un colpo di scena che lascia spiazzati e che mira di più all’effetto sentimentale, patetico.

Non vogliamo smontare e demonizzare Once Upon a Time che in fondo rimane per i suoi presupposti un prodotto abbastanza interessante al giorno d’oggi, in cui si cerca di fare della fiaba un racconto psicologicamente complesso più che simbolicamente strutturato. Tuttavia bisognava limitare gli spazzi, accontentarsi di un numero più ponderato di episodi. Prova di ciò è che lo spin-off Once Upon a Time in Wonderland risulti nella sua brevità (una sola stagione di tredici episodi), quasi maggiormente piacevole dell’intero arco narrativo principale.

L’intento, quindi, di dare consistenza, spessore alle vicende è stato raggiunto, ma solo fino alla terza stagione che segna la sutura della vena creativa. Il resto appare come un continuo ripetersi di avvenimenti dove stupire diventa l’unica necessità, dove bisogna trovare un cattivo da eliminare ed un buono in odor di santità da osannare. Forse la parola fine sarebbe dovuta giunger prima e il tema stesso del “lieto inizio”, posto a sigillo di tutta la vicenda, si colora di tonalità pastello che fanno percepire la fine come nostalgica, ma anche come una liberazione: finalmente un poco di pace per dei protagonisti così disgraziati!

Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *