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Uno sguardo in anteprima sui testi del Festival di Sanremo 2019

Quando Claudio Baglioni, per la seconda volta alla guida del Festival di Sanremo, definì le canzoni della 69esima edizione «una fotografia di tutta la musica italiana attuale», si poteva pensare alla classica dichiarazione di circostanza e acchiappa-like. Invece, leggendo i testi, scopriamo tutt’altro.

I testi di questo Sanremo sono sostanzialmente molto vari, ricchi e diversi rispetto a quelli della precedente edizione; una tale varietà è possibile grazie ad un distacco generalmente condiviso da tutti i brani (chi più, chi meno) dalle modalità espressive e linguistiche del canzonettese classico, come per esempio il ricorso ai possessivi miei/suoi, con tanto di inversione con i sostantivi a cui si riferiscono (ne troviamo soltanto due: «ma con la testa mia», Per un milione, Bomdabash; «il senso dei giorni miei», Musica che resta, Il volo – non a caso uno dei testi più tradizionali), l’allocuzione al tu dell’amata (anche laddove è presente, come in Per un milione, Boomdabash, si inserisce in costruzioni piuttosto originali), l’insistenza sulla tematica amorosa (che è comunque il tema portante di alcune canzoni ancora piuttosto tradizionali, come Le nostre anime, Anna Tatangelo, o altre più originali, come Solo una canzone, Ex-Otago) o la presenza di tronche, di infiniti o di monosillabi in posizione finale di verso (che troviamo soprattutto in brani come Cosa ti aspetti da me, Loredana Bertè,  Un po’ come la vita, Patty Pravo e Briga, o Con i tuoi particolari, Ultimo).-

L’amore quest’anno è presente più che altro come tematica trasversale, utilizzata per parlare d’altro: la troviamo in canzoni che possiamo definire metatestuali come Mi farò trovare pronto, Nek («libri di milioni di parole / ce ne fosse almeno una / per essere all’altezza dell’amore») o Con i tuoi particolari, Ultimo («se solamente Dio inventasse delle nuove parole / potrei scrivere per te nuove canzoni d’amore»), oppure in brani di tematica non amorosa come Dov’è l’Italia, Motta, in cui il sintagma classico «amore mio» è usato come appellativo-allocutivo al paese-Italia, di cui viene cantato il presente drammatico in modo molto semplice, ma tale che si presti a diverse chiavi di lettura («Dov’è l’Italia amore mio? / Mi sono perso anch’io / come quella volta a due passi dal mare / fra chi pregava la luna / e sognava di ripartire»).

Il tema più diffuso nei testi non è dunque l’amore, ma il presente e la contemporaneità (tendenza che nel corso degli anni sta gradatamente prendendo il sopravvento) con il suo carico di incertezze e drammaticità, dettate dal momento storico che sta vivendo il nostro paese. In particolare, troviamo la contemporaneità intermediale, ingrediente della ricerca (piuttosto banale) della felicità nel quotidiano cantata da Arisa («guardo una serie alla tv e mi sento bene», Mi sento bene), ma anche del piccolo capolavoro di Daniele Silvestri («nella testa girano pensieri / che io non spengo / non è uno schermo / non interagiscono se li tocchi, Argento vivo»); il grigiore del presente è contrapposto al passato nella nostalgica ma sentita (e riuscita) elegia sui tempi andati di Enrico Nigiotti («Nonno mi hai lasciato dentro un mondo a pile / centri commerciali al posto del cortile / una generazione con nuovi discorsi / si parla più l’inglese che i dialetti nostri; siamo ostaggi di una rete che non prende pesci ma prende noi», Nonno Hollywood), e condisce anche la tristezza dell’innamorato non corrisposto di Federica Carta e Shade («dammi il mio panico quotidiano», Senza farlo apposta); infine, il presente emerge prepotente nello sfogo generazionale di un figlio nei confronti del padre – con tanto di versi in arabo – di Mahmood, che si inserisce perfettamente nelle modalità espressive della trap («è difficile stare al mondo / quando perdi l’orgoglio / lasci casa in un giorno», Soldi).

In alcuni testi la contemporaneità si declina fortemente nell’attualità, fatto per altro non proprio usuale per il Festival: i Negrita e Motta cantano il dramma dell’immigrazione («per far pace con il mondo dei confini e passaporti / dei fantasmi sulle barche e di barche senza un porto / come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco», State tutti bene), tema toccato anche dagli Zen Circus («il nostro sangue a quello dei topi arrivati in massa con le maree / le porte aperte, i porti chiusi, e sorrisi agli sconosciuti», L’amore è una dittatura) in un testo che risuona di echi fortemente deandreiani (i versi «un cane pastore lo fa per amore / non per denaro, non per rancore» parafrasano celebri distici di Bocca di rosa) e che si caratterizza per una carica politica e anarchica (il modello è ancora una volta De André) piuttosto rara, per non dire completamente inedita, per il Festival («ma l’amore è una dittatura / fatta di imperativi categorici / ma nessuna esecuzione / mentre invece l’anarchia la trovi dentro ogni emozione»).

Una tale tendenza alla contemporaneità, al presente e all’attualità, necessita di un ricorso ad un linguaggio piuttosto colloquiale, anche se non mancano immagini tipiche del sanremese (che affollano soprattutto i brani più classici) come «je te veco accussì / luce nel tuo sorriso / anche quando c’è il vento contro / quando il buio si fa profondo», Un’altra luce, Nino D’Angelo e Livio Cori (da notare il code mixing tra italiano e napoletano); «ma non sei più da sola, ora siamo in due / io ci sarò, comunque vada», La ragazza con il cuore di latta, Irama (il tema di una ragazza malata di cuore innamorata sembra riecheggiare, con stile completamente differente, un precedente decisamente illustre: Un malato di cuore di De André); «stanotte stringimi / baciami l’anima», Musica che resta, Il volo; «c’è un universo che mi riempie le mani […] / io che guardo sempre il cielo / e sogno di volare ancora», Aspetto che torni, Francesco Renga (con l’abuso del verbo volare); «io che cerco una risposta anche quando non c’è / la superficialità dei tuoi sguardi mi uccide», Parole nuove, Einar (superficiale in realtà è il suo testo… di parole nuove neanche l’ombra!).

Accanto a queste immagini trite, ritrite e desemantizzate del loro potenziale linguistico, troviamo alcuni veri e propri gioiellini linguistico-testuali: Abbi cura di me, di Simone Cristicchi, è una preghiera di impronta francescana a metà tra il religioso e il laico, dotata di intenso lirismo e dai tratti profondamente bucolici e umanistici (vi si trovano echi di Battiato, Branduardi, Baglioni e Vecchioni); Argento vivo, Daniele Silvetri, è un monologo in prima persona, realizzato grazie al flusso di coscienza, di un giovane costretto in carcere (reale o spirituale?), costruito con ricchissime suggestioni sul piano del significante che cercando di rendere anche a livello fonico la rabbia del giovane; I ragazzi stanno bene, dei Negrita, è un ritratto spregiudicato e vissuto della situazione attuale dei migranti, che unisce stile colloquiale a termini del linguaggio letterario e colto (perfino un latinismo: fortitudine), con un finale di grande lirismo e speranza; Rose viola di Ghemon è un testo forte che contamina stilemi del cantautoreale classico (come la parestesia, le analogie e l’assenza dell’articolo) con alcuni tratti del rap, come le rime baciate martellanti e l’insistenza sul significante.

Insomma, pare che Baglioni sia riuscito davvero a restituire una fotografia dell’articolato panorama musicale della canzone d’arte di oggi in Italia, almeno per quanto riguarda i testi: per sapere se queste suggestioni saranno confermate, non resta che sintonizzarci e seguire la prima puntata del Festival questa sera!

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