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Un’analisi su Papa Sorrentino

The young Pope non è una serie normale, non è classica, non è di immediata e piena comprensione. Mi rifiuto di definirla il frutto di una mente geniale o folle, perché sarebbe troppo facile e banale. È piuttosto l’opera di una mente complessa, poliedrica. Di una mente che non si può inquadrare in una sola occhiata. Guardare The young Pope è come scoprire poco a poco le facce di un poliedro al cui interno si nasconde l’anima del suo demiurgo, Paolo Sorrentino. Perché siamo di fronte a una serie tv sui generis, che non potrà generare un filone a lei simile, ma resterà per sempre un unicum legato alla mente del proprio creatore che – mai come in questa sua creazione – ci mostra le proprie paure, le proprie ferite mai rimarginate, legate a quella condizione di orfano che Sorrentino, intervistato da Antonio D’Orrico nel 2009, descriveva come la vera svolta della sua vita verso il mestiere di regista: “La perdita dei genitori a 17 anni mi ha cambiato la vita in tutti i sensi. Se non fosse successo quello che è successo, non avrei mai fatto il regista. Da figlio di bancario avrei seguito, più o meno, le orme paterne. L’essere rimasto orfano mi ha dato l’incoscienza per provarci” dice il regista. E potrebbe finire qui la mia analisi di Young Pope, perché il poliedro cui mi riferivo gira tutto attorno alla condizione di orfano. È questa la chiave di lettura principale di una serie che descrive i primi passi di un giovane orfano americano nel labirinto del potere papale, una personalità da scoprire puntata dopo puntata, faccia dopo faccia, cercando di farsi un’idea della sua forma finale. Lenny Belardo è abbandonato dai genitori in giovane età e affidato alle cure di suor Mary e così, da figlio di una coppia hippie, comincerà il suo percorso verso il papato, minato però nel profondo da un trauma che lo porterà sempre a ricercare sostituti alle figure familiari perdute. Suor Mary, interpretata da Diane Keaton, sarà come una madre, il Cardinale Spencer come un padre, quantomeno spirituale, il Cardinale Dussolier, suo coetaneo e orfano anch’egli, come un fratello.

Ma poi Lenny diviene Pio XIII e i rapporti cambiano, perché Mary diventa una sottoposta, Spencer quasi un nemico, Dussolier un infelice. Tuttavia, siamo sicuri che i rapporti tra i personaggi siano così rigidi? Perché Young Pope funziona un po’ come certe processioni religiose ancora in uso in giro per l’Italia: due passi avanti e uno indietro, in un moto dondolante, ipnotico, come se gli episodi fossero scritti da un monaco che prega camminando e camminando sotto i quattro portici di un chiostro in un eterno ritorno sui propri passi, tipico della mente spirituale che si interroga su se stessa, sul mondo, su Dio, senza mai stare tranquilla e ferma. Una mente in rivoluzione, come quella di un Santo. Ed eccoci a un altro punto importante della nostra indagine: la santità. Papa Belardo è orfano, è giovane, indaga su se stesso e, si dice in giro, è anche un Santo, forse in grado di compiere miracoli, forse integerrimo, incorruttibile e di fede saldissima. Forse. Oppure non è affatto un santo, è l’incarnazione di vizi che prima o poi verranno a galla, è colui che distruggerà la Chiesa dall’interno con le sue cervellotiche strategie di chiusura e rigidità. Come tutti i grandi personaggi, Pio XIII è amato e odiato, compreso da nessuno – nemmeno da se stesso – ed è un Papa che spiazza, del tutto simile, in questo, al regista Sorrentino.

Infatti in Young Pope si affrontano i temi scottanti del XXI secolo e li si intervalla con quelle che spesso sono vere e proprie gag, slegate dalla storia, pur di per sé narrata in immagini e in dialoghi, se non in monologhi e soliloqui. Scenette estremamente coraggiose, quasi degli azzardi, basti pensare alla vestizione del Papa, che avviene sullo sfondo di una nota canzone degli LMFAO – non esattamente un canto gregoriano – e che si sviluppa similmente alla vestizione dei Batman di Tim Burton. Purtroppo però, non tutto è perfetto, e i riferimenti al calcio, a Maradona, al Pipita Higuain, al Napoli in generale, squadra del Segretario di Stato Cardinal Voiello (l’ottimo Silvio Orlando), sono eccessivi, reiterati, fuori luogo, seppur volti, probabilmente, a creare il retroterra necessario alla battuta con cui Voiello, che non ha mai conosciuto l’amore di una donna, cerca di figurarsi l’infedeltà verso un essere umano come qualcosa di pari all’infedeltà al Napoli. Capita anche di vedere una suora giocare a calcio entro le mura vaticane mostrando una tecnica degna del Pibe de oro. Qui Sorrentino chiede davvero troppo alla nostra sopportazione, ma perdoniamo e andiamo avanti, sperando che in Young Pope il regista abbia finalmente esaurito la sua fame di riferimenti al Napoli e al calcio in generale.

Come è accaduto spesso nei film nel regista napoletano, anche in Young Pope non tutto appare chiaro, ci si chiede anzi spesso cosa voglia dirci l’autore con certe immagini, certe scene. Forse nulla, forse Sorrentino comunica semplicemente con le immagini, veicola sensazioni di plurima interpretazione o forse, da grande regista, si diverte a prendersi gioco dello spettatore, ad entrare nel suo spazio personale e far crollare le poche basi che ci aveva concesso. Sorrentino è di fatto un regista che si nasconde – come il suo Papa – e non rivela chiaramente le proprie idee politiche, religiose e sul mondo in genere. Come ne Il Divo (2008), che racconta le vicende di Giulio Andreotti, Sorrentino non prende una posizione nettissima nei confronti del personaggio, malgrado le apparenze, così in Young Pope non mostra chiaramente la sua posizione su temi quali l’omosessualità, il celibato, l’aborto, oscillando tra una voce e l’altra del coro. E forse è meglio così. Quel che ci interessa vedere è lo scompiglio che la meteora incendiaria Pio XIII crea nei personaggi che attorno a lui gravitano, i quali perdono le proprie certezze, costretti a rimettersi in discussione ad età avanzata o a carriera ben avviata. Una meteora, quella del nuovo Papa, che appare nella sigla iniziale della serie e che finisce per colpire Giovanni Paolo II, in un’immagine forte e presa in prestito dall’opera di Maurizio Cattelan intitolata La nona ora. Perché Sorrentino attinge dall’arte contemporanea, dalla cultura pop, dalla musica rock, da tutto quello che gli piace e che riesce a mettere in fila. Riuscendo pure a dichiarare la supremazia dello zucchero bianco su quello di canna, odiato sia da lui che dal suo capriccioso Papa Pio XIII. Un’opera un po’ egocentrica The young Pope e anche un po’ egoistica, perché Sorrentino, a tratti, pare prendersi troppo tempo, stiracchiando i tempi narrativi, diluendoli. Puntate leggermente più brevi avrebbero sicuramente dato una rinfrescata all’atmosfera, visto anche il target distributivo che, negli USA, punterà allo stesso pubblico di serie più “rapide” come Game of Thrones e Westworld, entrambe trasmesse dalla HBO. Buona fortuna, e gliene auguriamo tanta. In Italia, nonostante a trasmetterla sia Sky Atlantic, il discorso è diverso. La paternità della serie e i gusti più raffinati degli italiani sono una sicura fonte di affari per Sky.

Ad ogni modo, grandissimi meriti vanno accordati a Paolo Sorrentino. In qualsiasi caso. Perché ha portato il Vaticano al centro del mondo, ha coinvolto il divo Jude Law, ci ha parlato di un mondo che non è quello vissuto dalla maggior parte dei laici, e che a tratti non riusciamo a capire. Non sappiamo quali siano i pensieri di chi vive tra le mura vaticane, quali ne siano le ambizioni, i rimpianti, le gioie. Non ci interroghiamo mai sull’amore visto nell’ottica dei preti e delle suore. Non conosciamo il buio e la luce, le apparenze e le speranze, la voglia di vivere nel mondo e l’intrinseca incapacità di farlo che si riassumono in personaggi come Monsignor Gutierrez, Suor Mary, Padre Tommaso. E non li conosciamo nemmeno dopo aver visto Jude Law vivere le sue avventure con un’attitudine, bisogna sottolinearlo, del tutto dissimile da quella di Papa Francesco. Ma Sorrentino ci dà l’impulso per l’indagine personale. Riesce a far stare in piedi un castello che in mani altrui sarebbe crollato miseramente. Quello di Sorrentino, invece, ha solo qualche crepa.

Non mi dilungo oltre e vi invito a superare gli sporadici momenti di noia per approdare a singole scene o intere puntate che sono veri capolavori visuali, spirituali, evocativi, magniloquenti e umani. D’altronde, non è carino essere ospiti a casa Sorrentino e guardare solo le crepe nei muri, quando vicino ad esse c’è una statua del Bernini.

Dunque appuntamento alla seconda stagione, fiduciosi che Sorrentino non spedisca troppi personaggi in Alaska, così da toglierci, poco a poco, argomenti utili alle nostre profane speculazioni. E così sia.

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