Letteratura

Una selezione di poesie di Fabio Pusterla – parte I

Da “Concessione all’inverno” (1985)

Paradiso, Caprino, Cavallino

Io credo che un vecchio
da qualche parte immobile sul quai
(scura ombra antistante l’acqua marcia)
in bilico sul margine, dove straborda
l’onda al passaggio di parodie di navi,

un marinaio d’acqua dolce, cupo
turistico Caronte lungo il golfo,
guardi la sera il lago.
Da impronunciabili presagi apprende
che da sotto (egli sa) usciranno.

(I pochi morti annegati non vengono
di solito tratti in superficie:
correnti ignote e mobili fondali, lucci,
alghe incolori arrestano
il transito dei pallidi).

Verranno
una notte inattesa e prenderanno
possesso della città: nerastri, untuosi,
le algose chiome sciogliendo,
a sconvolgere verranno, per tingere,
infine, di catrame
i rami, e benzinose essenze.

 

Al doganiere

Al doganiere dichiaro
una scatola d’ovomaltina,
frutta secca, piselli sottovuoto;
a mio modo solenne, poi,
due bottiglie di vino.
Taccio invece di te, della tua foto
nascosta fra i documenti.
Annuisce contento:
mi crede sano.

 

[senza titolo]

«Dramma!» tu mi fai. «Uno Svizzero in fuga!»
(i tuoi eroi seguivano a distanza
su disperati pedali). «Tanti», avrei risposto
«fuggono, in un modo o nell’altro».
Ma cade qualcosa, non ricordo, o arriva il drink;
o uno guarda l’ora, e si cambia discorso.
Poi si va tutti insieme alle gole lungo il fiume,
dopo il mulino e i cerchi
delle ipotetiche trote, dove l’acqua fa gomito
e il forno (del biancone) continua a girare; passiamo
il ponte di ferro, entriamo fra le baracchi
(qui non viene quasi nessuno, naturalmente).
I vetri rotti, la ferraglia in un angolo
(biciclette, carcasse di macine, bisunti porno).
Le scritte col gesso («Dio abita qui»
e altre, incomprensibili), i fiori. Le svastiche.
E adesso è tutto chiaro; torniamo su al paese
dalla strada dei camion, giocando con l’eco del tunnel
a gridare nel buio.

 

Lettera da Tinizong

Niente d’eroico in questo esilio
casuale. Il marinaio ricorda
lo stacco della nave dal pontile,
le musiche d’addio, gli ultimi spari
del cannone di terra? Io no,
io non so dove, quando la partenza
(se partenza c’è stata); da qualche parte
s’intuisce ci dev’essere un errore
– mio o d’altri non importa – un’imprevista
smagliatura, un sasso fuori posto.
Né basta dire che adesso (quando?) qui (dove?)
si aprono inconsuete visuali, angoli acuti
di realtà (e intanto sfugge il resto del cerchio).
La disfunzione è altra, è nei vapori
che velano le cose, si confondono le case
le chiese le chiuse; e chi sa più se l’inaudito
tumefarsi dei volti, e l’appiattirsi
e l’inarcarsi dei monti, e il beccheggiare
dei ponti siano segnali veri, tracce forse
di un mondo altro, sottostante,
che irrompe a tratti violento,
o fantasmi neppure ipotizzabili?
L’esilio comunque è in questo
non essere intero mai, non esistente del tutto
nell’istante, e sempre distante
dal vero.

 

Da “Le cose senza storia” (1994)

Visita notturna

Stai sognando
cratassi, tirabraccia, il drago soffia-naso.
Chissà cosa sognava Anna Brichtova, che stanotte
viene a trovarci con il suo mosaico
di carte colorate: la sua casa
col tetto rosso, gli alberi
nel prato verde, il cielo: e fuori un lager.
Questo è il vero regalo
che ho portato da Praga senza dirtelo.
Era con me sul treno, la mattina
che ho creduto di vivere all’inferno: Stoccarda,
o giù di lì, dentro un ronzare
di gente che lavora a non sa cosa
o per chi, ma lavora, preme tasti,
invia messaggi a ignoti dentro l’aria.
Solo occhi e dita, solo
un giorno dopo l’altro, smisurato
trascorrere di un tempo che non varia, che appartiene
per sempre ad altri,
ad altro che a sé stessi, e la paura, l’odio
del paria contro il paria, questa rissa
d’anime perse, nuovi schiavi. Il Grande
Bevitore di Birra, la Donna Occhi nel Vuoto,
Mazinga, i miei compagni di viaggio.
Chissà come sognava Anna Brichtova,
a cosa sogni tu, e come vedete
il mondo voi bambini. Lo troverete,
fra i vostri giochi, il gioco che ci salvi?

Noi tutti lo speriamo
guardandovi dormire.

 

Allievi

Li incontro sulle piazze
o in qualche bar, li riconosco
quasi sempre, e penso cosa diventano,
adesso, tutti quegli occhi, quelle dita.
Carburatori, cravatte. Certi timidi,
altri perfino odiosi. E i devastati,
quelli che leccano l’asfalto.
E infine anch’io,
che ho in mano cetrioli e carta igenica.

 

Da “Pietra sangue” (1999)

Quasi un’allegoria

In questi giorni gallinelle d’acqua
si tuffano a pescare. Se riemergono
più in là, è con l’alborella
d’argento dentro il becco. I pochi cigni
candidamente stolti che le incrociano
nuotano al largo alteri, come se
non ne sapessero nulla. Però fingono
dall’alto di inutili, lunghissimi colli.

(La notte li senti sbattere le ali, cadenzare
lo sforzo quando cercano, ma con quale fatica,
di prendere il volo.)

 

Roggia

Passo di qui, tornando da un lungo viaggio,
come in un cimitero di memorie.
La pozzanghera c’è sempre, anche d’estate
il fango, la sterrata, i ciuffi d’erba
e d’ortica non cambiano mai. Sassi e sterpaglie
spariranno anche loro, soffocati da una morsa
più forte, di cemento, un giorno o l’altro,
e forse prima ancora dei nostri ricordi;
ma per adesso ci sono, ed è il paesaggio
desolato che ho scelto per te. L’ultima casa
aperta al vento e alla luce, una pianura
quasi sempre deserta, non amena,
che percorre lentissima
una roggia. Io fumo, sto sul ponte,
e getto anche per te una sigaretta
Nell’acqua scura. È un rito
senza senso, meno ancora che un rito:
un’abitudine. Già con mio padre, a volte, sotto i fiori;
e mi domando cosa avrà pensato mia madre
di quel tabacco tombale: spettri, vandali?
O forse ha indovinato e non ne parla
per pudore. Full flavor blend, comunque, una
miscela
mediocre, piuttosto grezza, maryland: la sigaretta
rossa dei muratori, o così dicono. Anche il nome
riporta a sogni lisi e fuori corso: Parisienne,
ragazze che sgambettano su un palco al Moulin
Rouge
le luci di Pigalle, la naftalina di un secolo, BB.
O Jeanne Moreau, col suo volto
vastissimo e profondo: le sarebbe piaciuto
questo tabacco. Oggi però inattesi
dall’argine sono spuntati cinque germani
spaventandomi quasi. Sono scesi in acqua regali,
risalendo la poca corrente della roggia, e uno di loro
si è voltato un istante.

 

Il poeta nel proprio luogo natío

Eccoci ancora alle tue strade petrose
di fumo e crudeltà, nostro non luogo,
non nome, non memoria: percorriamo
di te ogni infamia, e tutto è come prima,
vetro dov’era sasso, nuovi emblemi
e miserie ma identica
l’ombra che assale. «Ciao Alessandro»
dico a uno che passa e conosco;
ma sbaglio, si chiama Maurizio;
e poi un altro mi ferma, mi grida
di andar via che è un paese di morti.

Ma era qui il mondo, in un retrobottega
o tra i vicoli, l’effluvio
di orina e soldi, legname. Sui binari
si mettevano sogni e monetine
di rame perché il treno lo schiacciasse.

 

L’autista dei sogni

Mi guidi nei pomeriggi senza voce,
quando io ti accompagno nel sonno e ce ne andiamo
insieme, tu dietro, dormiente, io autista svagato,
nel paesaggio lunare che sfila, nel puro
attraversamento. Tu scendi
veloce più dentro nel tuo ritmo profondo,
e quel ritmo – il sommesso pulsare che ascolto –
cadenza anche il mio abbandonarmi all’andare
per felci e brughiere, su rive
di piccoli fiumi. E i paesi
strani per cui passiamo, dai nomi improbabili
– Dumenza, Suino, Termine, Bombinasco –
sono davvero lì tra le colline, sepolti,
o sei tu che li guardi dal sogno e mi trasporti
dove da solo io non saprei andare?
Fra Termine e Suino come un’onda
ci accoglie muggendo una mandria di buoi muschiati.
Oppure, senza preavviso, dopo una curva,
la strada è coperta di enormi tronchi di faggio.
Quando ti svegli mi sveglio anch’io, e mi viene in mente
la storia di un paese che si chiamava Alluvione cambiò.
Ma non ti piace.

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