Sport

Una passione che uccide. La linea sottile tra la vita e lo spettacolo

 

di Francesco Iacona

La prima cosa da pensare è che è morto un ragazzo di 24 anni. Un ragazzo che, come tutti noi, aveva dei sogni e stava anche riuscendo a realizzarli. Un ragazzo che tragicamente lascia una famiglia, degli amici, una fidanzata.

Dopo viene il motociclista. Perché, almeno in questi casi, è giusto che un personaggio famoso vada ricordato prima come essere umano e poi per quello che era agli occhi di tutti. Perché una tragedia è uguale sia quando uno è famoso che quando non lo è.

Io non sono un appassionato di moto, non guardo le gare e apprendo passivamente – tramite la tv, i siti sportivi o i discorsi degli amici – i risultati dei GP. Ma quando questa mattina ho appreso, su facebook, della morte di Marco Simoncelli mi è dispiaciuto molto: era un personaggio che quando lo vedevo in televisione con quei capelli bizzarri e lo sentivo parlare con quell’accento fortemente romagnolo non potevo non prenderlo in simpatia.

Ma dietro a tutto ciò, come sottofondo di questa tragedia, c’è una riflessione che vorrei fare.

Nel giro di una settimana c’è stata la morte di due piloti. Domenica 16 ottobre: Dan Wheldon. Domenica 23 ottobre: Marco Simoncelli.

Il primo muore in un incidente pazzesco, che ha coinvolto altri quindici piloti, nell’ultima gara della IndyCar Series sul circuito di Las Vegas. Egli aveva accolto la sfida lanciata dagli organizzatori della competizione di cercare di vincere la corsa partendo dall’ultima posizione, in palio 5 milioni di dollari. Senza questa scommessa sarebbe andata diversamente? Non lo sapremo mai.

Il nostro Simoncelli muore durante il secondo giro del gran premio di Malesia a Sepang. Perdendo il controllo della sua Honda, cade e viene travolto dalle moto di Colin Edwards e Valentino Rossi, perdendo il casco nell’impatto. I traumi riportati alla testa, al collo e al torace gli sono fatali.

Quello che vorrei dire è che per me è assurdo perdere la vita in questo modo. Non dovrebbe succedere. Non si dovrebbe morire facendo sport. E se il rischio è così elevato forse non bisognerebbe nemmeno chiamarlo “sport”. Ma semplicemente spettacolo. Perché solo lo spettacolo, e il business che ne deriva, possono permettere a dei giovani di rischiare la vita ogni domenica per una cosa futile come le corse con le moto o con le macchine.

C’è una linea sottile tra la vita di chi pratica questo “sport” e i soldi che ci girano attorno. Ed è per colpa di questi soldi che la vita di un ragazzo è sacrificabile, al contrario dello spettacolo, il quale dovrà continuare. È vero, il GP di Malesia è stato annullato; ma ce ne saranno tanti altri, nei quali ci saranno tanti altri giovani piloti che rischieranno la vita sia per dar sfogo a una loro passione, sia per far divertire i telespettatori, sia per far muovere un giro di soldi inimmaginabile.

Ogni pilota quando intraprende la sua carriera sa di correre questo rischio. Correre con la macchina o con la moto è pericoloso. Sempre. Figuriamoci quando si va a 300 all’ora. E loro lo sanno. Perciò è inutile piangersi addosso.

Tanti piloti, prima di Wheldon e Simoncelli, hanno avuto incidenti mortali e sappiano bene che prima o poi, purtroppo, ce ne saranno degli altri.

L’unica cosa che possiamo fare è condividere link commemorativi su facebook, perché – come ho già detto – lo spettacolo non si ferma.

Questa è la mia opinione. L’opinione di uno che ha una visione esterna e chi ha la passione per le corse molto probabilmente la penserà diversamente. E forse criticherà le mie parole.

Quello che rimane di questa giornata è il fatto che non avremo più il piacere di vedere quei capelli buffi e di sentire quella voce romagnola. Perché Marco se né andato, fatto fuori dalla sua passione: le corse con le moto.

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