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Una chiacchierata con Mino Milani, il cantastorie di Pavia

Era un giorno grigio, non freddo ancora, con nuvole basse e, di tanto in tanto, qualche po’ di pioggia leggera e senza rumore. Gli alberi del viale avevano già perso quasi tutte le foglie. C’era il solito traffico, automobili che arrivavano rombando da Porta Milano, automobili impazienti ai semafori, parcheggiate in disordine lungo i marciapiedi, pedoni che attraversavano esitanti la strada, corriere rosse e azzurre, sicure della loro mole, nuvole grigie di fumo, puzza di olio bruciato.

L’incipit di Fantasma d’amore, romanzo del 1977, è datato nella finzione della vicenda 25-30 ottobre 1975. Difficile trovare un incipit migliore per iniziare a parlare della serata trascorsa in compagnia del suo autore, Mino Milani classe 1928, salvo ovviamente per dovere di cronaca il cambio di data. Ma la Pavia, vera e propria protagonista del romanzo, descritta da Milani nella sua riconoscibilissima uggiosità autunnale, è la stessa di questo mercoledì sera di inizio novembre. Grigio, non ancora freddo, nuvole basse e quella pioggia leggera per la quale non vale la pena aprire l’ombrello. Il calore con il quale ci accoglie il Maestro contrasta piacevolmente con l’aria umida che ci lasciamo alle spalle. Nell’ordine la nostra attenzione è catturata prima dalle immense librerie ricolme di libri storici e rarità che farebbero ingolosire qualsiasi bibliofilo e successivamente da una gatta nera non eccessivamente timida, Sibilla. Il Maestro ci accoglie con tutti gli onori e dopo averci servito (e stappato per l’occasione!) un buon bianco insieme a qualche stuzzichino ci fa accomodare nel suo studio e iniziamo la nostra chiacchierata partendo dagli inizi della sua carriera e dalla sua Pavia.

DSC03051Gli studi, quelli belli. Foto di Giulia Passolungo

«Pavia era una città più bella, più povera, più desiderosa di fare e una città nella quale trovare lavoro non era facile specialmente per un laureato in lettere. Il destino di un laureato in lettere era la scuola, e mi andava anche bene, ma quando mi son laureato nel lontano 1950 (la guerra era finita da cinque anni appena) nelle domande per l’ammissione alla scuola c’era una precedenza per tutte quelle categorie particolari come figli morti in guerra, i feriti, madre vedova, e io rientravo ad andar bene nelle categorie molto in basso. Allora ho avuto un incarico di assistente volontario non in lettere ma in scienze politiche. Ho passato un paio d’anni lì e ho imparato a studiare con metodo molto più di quanto non avessi fatto per la laurea. Poi saltò fuori un concorso alla biblioteca Bonetta, qua a Pavia e lo vinsi e andai a lavorare lì dove ho passato anni molto belli della mia vita a cominciare dal lavoro. Non finirò mai di dirlo, il lavoro è importantissimo; io ho dei nipoti che lavorano tutti e soltanto adesso mi dicono “zio abbiamo capito quando ci rompevi le palle con l’idea del lavoro”. In un certo senso lavoro ancora adesso. Io però ho avuto una grande fortuna: quella di far coincidere lo hobby con il lavoro, una fortuna che non tutti hanno. Molti miei amici giornalisti hanno smesso col tempo di scrivere ma io vado avanti perché mi piace».

DSC03090«Pavia era una città più bella. E più povera». Foto di Giulia Passolungo

Il tono del racconto è poi smorzato notevolmente quando comincia a parlare della guerra e di quella che ha vissuto lui in prima persona. È un racconto ricco di dettagli, molto di più di quanto non lo siano i racconti degli anni successivi: «Pavia non è stata particolarmente colpita dalla guerra ma la zona di Borgo Ticino era stata bombardata duramente e il ponte ferroviario era stato cancellato al primo bombardamento. Il Ponte Vecchio era stato scoperchiato in parte. Ne abbiamo subiti cinque di bombardamenti e al quinto io ero davanti al ponte. All’epoca avevo 17 anni e quando abbiamo sentito gli aerei io son saltato in bicicletta e ho pedalato all’impazzata verso non so dove. Ho sentito il fischio delle bombe e poi una ventata di aria calda che mi ha spinto avanti per Corso Garibaldi in maniera incontrollabile». Si parla poi del Corriere dei Piccoli, la rivista alla quale ha contribuito maggiormente come scrittore e fumettista e che all’epoca vendeva qualcosa come 250.000 copie: «Dovete sapere che all’epoca scrivevo storie esclusivamente per bambini. Pertanto questa [ci mostra la sua mano] non era una mano ma una “manina” e i bambini non avevano piedi ma “piedini” e tutto doveva finire bene e in maniera consolatoria. All’epoca era direttore Giovanni Mosca, una sorta di Forattini dell’epoca. Gli dissi basta con queste storie che finiscono sempre bene, facciamone invece una della vita di oggi, vera, autentica e in effetti gliene mandai una ispirata proprio alla vita pavese. Gliela inviai e la pubblicò e poi gliene inviai un’altra dove ebbi il coraggio di metterci anche un morto. Poi mi arrivò un telegramma che segnò l’inizio della mia carriera di giornalista che diceva “Caro Milani, mi mandi ancora più racconti che vanno molto bene”. E da lì ho passato 15 anni al Corriere molto belli. Era diventato il giornale europeo di riferimento per i fumettisti». Ed era vero perché come lui stesso ci ricorda molte erano le firme importanti del fumetto nazionale e internazionale da Hugo Pratt a Arturo del Castillo. «Io ho lavorato con i più grandi disegnatori del mondo». Quella portata da Milani al Corriere dei Piccoli e poi dei Ragazzi fu una vera rivoluzione contraddistinta da eroi che perdevano, cattivi empatici e più in generale tutti quegli elementi del genere avventuroso che naturalmente mancavano nelle storie per bambini.

DSC03085«Questa non era una mano ma una manina». Foto di Giulia Passolungo

Poi arrivò il suo grande eroe e forse la sua creazione più nota, Tommy River. «Sapete perché l’ho chiamato così? – ci chiede quasi divertito «semplicemente perché era facile da pronunciare per una generazione di lettori che non sapeva l’inglese. Si leggeva così come si scriveva». Si alza in piedi e ci mostra fieramente un disegno del suo cowboy: «Ecco, questo è Tommy River disegnato da Mario Ruggeri. Lui sì che era un maestro!». Fu Guglielmo Zucconi, all’epoca direttore del Corriere dei Piccoli, che gli chiese di creare un personaggio western. Mentre ce ne parla la commozione è palpabile e il Maestro si prende una pausa dal suo racconto quasi a voler ripassare nella mente le immagini della sua memoria. «Ancora adesso, dopo tanti anni, mi capita di incontrare qualche mio lettore affezionato. Per dirne una a un ristorante a Milano una volta mi sono sentito osservato da un signore di mezza età. Dopo un po’ questi si alza e mi chiede se io ero il papà di Tommy River. Ecco queste cose ti fanno piacere soprattutto dopo così tanti anni». Tommy River era quell’eroe che, molto prima di film come Soldato Blu (Ralph Nelson, 1970) e in generale di tutto quel filone del cinema revisionista americano sugli indiani d’America, aveva affrontato tematiche importanti in modo maturo (“Io non difendo gli indiani, difendo gli uomini”); «ma senza buonismi! – ci ammonisce Milani – se c’era da sparare lo facevo sparare. Guardatevi dal buonismo che altro non è che una forma di banalizzazione».

DSC03068«Mario Ruggeri, lui sì che era un maestro!». Foto di Giulia Passolungo

Concludiamo parlando dei suoi ultimi lavori e provando insieme a lui a individuare tra fumetto, libri e indirettamente anche cinema (nel 1981 Dino Risi diresse una trasposizione cinematografica del suo romanzo Fantasma d’amore con Marcello Mastroianni e Romy Schneider) un tratto ricorrente nelle sue opere: «Non vorrei usare un parolone ma credo ci sia un tratto morale. Il compito di uno scrittore non è certo quello di educare o di sostenere un’ideologia ma certamente i valori fondamentali e universali quelli sì». E del resto cosa è meglio per parlare di valori universali se non la mitologia classica? Tra i suoi ultimi libri infatti troviamo La storia di Ulisse e Argo (1995, Einaudi), una commovente rivisitazione della storia di Ulisse, incentrata sul rapporto tra il cane e il suo padrone. O ancora la sua ultima fatica Miti e leggende di Roma Antica (2017, Einaudi). «Devo ringraziare la mia carissima amica Orietta Fatucci che anche se è vagamente di sinistra e quindi mia nemica politica [e qui ci mettiamo a ridere tutti] mi ha sostenuto in questa mia impresa. La differenza tra il mito greco e quello romano è il suo scopo politico. I miti greci non nascono da un intento politico ma umanistico, non erano propagandistici, mentre quelli romani sì. Erano dei miti che dovevano giustificare la grandezza di Roma. Di questi miti romani si è impadronito l’ideologia guerriera del fascismo. La Fatucci mi diceva che tra i vari errori del fascismo c’era proprio quello di aver usato troppo i miti romani dando un’impronta esclusivamente bellicistica. E questo ci priva della bellezza originaria di queste storie. Io l’ho scritto proprio con questo intento, per restituire il valore originario dei miti. E poi questo [Ulisse racconta] l’ho scritto valorizzando l’aspetto umano del personaggio di Ulisse e infatti, a parte Nettuno, non ci sono dei in questo racconto».

DSC03123«Io l’ho scritto proprio per restituire il valore originario di questi miti». Foto di Giulia Passolungo

Ci congediamo dal Maestro sempre accompagnati dalla sua cordialità e gentilezza (oltre che da una sempre più curiosa Sibilla). Una chiacchierata durata un’ora e mezza ci ha lasciato molto più di racconti, memorie e storie del passato. Ci ha lasciato un’immagine di Pavia nuova e allo stesso tempo immanente, difficile da raccontare a parole. A meno che non si è Mino Milani, il cantastorie di Pavia.

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