Interviste

Una chiacchierata con Matteo Pellegrinuzzi, fotografo degli incroci

Sono sempre più dell’idea che la fotografia, così come imparata, vada, a suo modo, anche insegnata. E questo insegnamento deve riguardare quella parte apparentemente più semplice della fruizione fotografica: il guardare le immagini. Mi capita sempre più frequentemente di interrogare una fotografia, di chiederle i suoi segreti e di spiegarmi la sua origine. Ma siccome, come accennavo poc’anzi, a me nessuno ha insegnato a guardare le fotografie, ho deciso in questo caso di risalire alla fonte e, nello specifico, a un fotografo italiano, ma naturalizzato (ahinoi) francese, il cui talento non è passato inosservato in Francia e negli Stati Uniti ma (ancora ahinoi) in Italia sì: Matteo Pellegrinuzzi. Matteo, come dicevo, vive in Francia, a Parigi, e ha già all’attivo tre mostre (almeno stando al suo sito), l’ultima delle quali, The Bronx – La Villette”, mette in mostra le similitudini e le contraddizioni di due quartieri tanto lontani quanto vicini: il Bronx di New York e La Villette di Parigi. Nei suoi accostamenti tra persone e luoghi, tra soggetti e sfondo, ho notato in Pellegrinuzzi una ricerca, quasi la declinazione di un istinto sociale, dell’umano e del suo ambiente. Come se il fotografo chiedesse, in un solo scatto, ai luoghi di parlare degli uomini e agli uomini di parlare dei luoghi. Ma, come dicevo, non sono istruito in materia e pertanto ho chiesto proprio al fotografo di parlarmi lui stesso del suo lavoro e della sua carriera.

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Bronx e La Villette, due quartieri così lontani eppure così vicini. Con la tua mostra fotografica vuoi forse passare il messaggio che tutto il mondo è paese oppure individuare delle differenze tra due quartieri urbani apparentemente simili?

Il Bronx e la Villette sono due quartieri che hanno entrambi alle spalle un passato di criminalità relativamente recente e molto forte. Tra gli anni ’70 e ’80 il Bronx aveva subìto diversi incendi e La Villette (in particolare la zona Stalingrad) era notoriamente la zona di spaccio del crack. La scelta delle due zone è stata in parte fortuita, in quanto ho trovato una persona che lavora nel Bronx (è una guida turistica) e ha seguito il mio lavoro. Così mi ha chiesto di immortalare il suo quartiere. E La Villette, beh, perché ci abito e quindi lo conosco bene. Ora entrambi i quartieri stanno conoscendo un’era di rinascita, di imborghesimento o di “hipsterizzazione”. Sono quartieri meno cari, nei quali gli artisti possono più facilmente vivere e trovare lavoro e occasionalmente aprire anche dei locali.

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Come è stato recepito il tuo lavoro nei rispettivi quartieri? Che feedback hai avuto?

I soggetti immortalati di entrambi i quartieri sono stati molto contenti di vedersi in foto. C’è da dire che il Bronx, a differenza de La Villette, vive con un po’ di risentimento il ricordo del proprio passato, proprio a causa dell’isolamento che hanno subito e dell’immagine, non raramente stereotipata, che il mondo ha del quartiere. Comunque, nel Bronx sono stati molto contenti del lavoro e addirittura l’ultima volta che ci sono stato mi hanno fatto una torta con la copertina del libro fotografico (diciamolo, una cosa molto americana ma che ho apprezzato tantissimo). Inoltre ho avuto il sostegno dell’assessorato alla cultura del comune del diciannovesimo distretto di Parigi (dove c’è La Villette appunto) e ciò comporta, da parte di Parigi, anche un importante riconoscimento amministrativo.

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Cambiamo un po’ argomento. Per la mostra “Dancing in Emilia” [di cui potete vedere un estratto qui] ti sei ispirato al lavoro di Gabriele Basilico. Considerando questo lavoro e anche gli altri tuoi come definiresti la tua fotografia? Cosa caratterizza il tuo stile? Hai dei maestri di riferimento?

Questa è una domanda difficile. Il mio è un palese omaggio a Basilico, che aveva realizzato questa serie di scatti nei quali documentava le serate nelle balere in Emilia, ballo liscio quindi. Ho voluto fare anch’io questa serie, seguendo un’estate nelle fiere estive di liscio in Emilia-Romagna, in bianco e nero e pellicola (ma del resto la maggior parte dei miei lavori è ancora a pellicola). Io non credo di avere maestri di riferimento ma sicuramente ci sono dei fotografi di cui seguo il lavoro e che ammiro e di questi non pochi mi hanno passato una visione che posso condividere. La mia fotografia è un insieme di esperienze e formazioni tutte diverse ma egualmente importanti; ho fatto video-servizi con Vogue, poi ho fatto un po’ di cronaca nera con Marcella Milani, che penso voi conosciate [ebbene sì, la conosciamo bene], poi a Milano con omicidi e politica. Ma ben presto capii che non era quello che volevo fare, così come anche per la moda, per quanto sia bella, ma non era il tipo di fotografia per il quale ho iniziato a fare fotografia. Curiosamente ho seguito un po’ lo stesso percorso di Basilico, anche lui ha iniziato con fotogiornalismo per poi intraprendere il suo personale percorso artistico. Per farti un po’ di nomi comunque potrei citarti tra i miei preferiti, oltre a Basilico, Sebastiano Salgado e i suoi lavori come Genesis, un pochino Steve McCurry, Stanley Greene (che è morto un anno fa), un po’ tutti quei fotografi che sanno raccontare fatti e storie dietro le quinte. Quelle storie che nessuno vuole raccontate ma che devono essere conosciute. Le storie di tutti i giorni e delle persone, diciamo così, “normali”. Ti racconto un aneddoto, secondo me significativo in questo senso: nel 2009 ho realizzato un reportage con la libreria Shakespeare e co. a Parigi. Ero dubbioso se farlo o meno quando ho cominciato. Mi sono confrontato con una foto-editor italiana molto importante, con la quale ai tempi mi confrontavo spesso. Fu lei a incoraggiarmi, a dirmi di farlo perché in ogni caso serviva della documentazione. Mi misi così a fotografare la vita della libreria e di altri caffè letterari. Quasi dieci anni dopo quelle foto sono diventate in qualche modo storiche. Sai perché? Perché tra i vari soggetti che avevo immortalato c’era anche, seppure sfuocata e di sfuggita, Anna Campbell. Lo venni a sapere da una ragazza inglese, sua amica, che era interessata a reperire più foto possibile di lei. Capisci? Sono le persone e loro storie a incrociarsi con le nostre vite e a creare a loro volta nuove storie. Sono questi incroci che mi danno occasioni di fotografare nuove storie.die

Matteo Pellegrinuzzi fotografo degli incroci quindi…che ne pensi come appellativo?

Fotografo degli incroci? Mmm…non lo so, mi suona strano ma sì credo possa andare…

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Senti ma perché la Francia e non l’Italia? È solo un caso oppure c’è qualcosa della Francia che l’Italia non ti ha dato, tipo un’occasione?

Beh, intanto c’è da dire che io mi sono laureato in lingue e letterature straniere, pertanto quando dieci anni fa ho iniziato il mio lavoro, un paese francofono era una scelta obbligata, dato che parlavo il francese molto meglio dell’inglese. E poi avevo sempre sognato di vivere in Francia e in particolare a Parigi, anche se poi, quando ci siamo trasferiti qui, abbiamo realizzato che è pur sempre “un’altra città” con tutte le sue contraddizioni. Ma se mi chiedi in generale perché all’estero, cioè perché la scelta di partire, ti direi principalmente per via della crisi del 2008 che ha causato il taglio dei fondi di molte redazioni. Noi abbiamo vissuto la coda di quello che è stato il periodo d’oro della fotografia. Poi c’è da dire che all’estero, anche al di fuori della Francia, c’è un riconoscimento del lavoro artistico maggiore, che in Italia non ho mai avuto. Il fatto di poter andare da un comune di una città di due milioni e mezzo di abitanti, in una regione di dieci milioni e mezzo di abitanti, dove non sei nessuno, presentare un progetto, magari anche scritto male (all’epoca sicuramente il mio francese risentiva molto della sintassi italiana), e vedersi ricevere di risposta una lettera con il via libera e ti finanziano pure il progetto è una cosa semplicemente impensabile anche nel mio comune di nascita. Onestamente, e non voglio suonare come il solito criticone verso il proprio paese, ho provato a realizzare i miei progetti in Italia, ma ho ricevuto solo porte in faccia. In Francia posso vivere in una città che è relativamente cara e posso senza vergogna sulla mia carta d’identità “fotografo” alla voce professione.

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Un’ultima domanda: quello che forse può sfuggire ai nostri lettori è che tu… hai collaborato anche con noi! Dai, dai…raccontaci com’era «Inchiostro» ai tuoi tempi!

Eh sì ho iniziato lì con voi. Anzi no, a dire il vero ho iniziato in un piccolo giornale di Voghera, pubblicato da uno studio grafico di lì. Poi dato che quelli erano gli anni d’università, per me entrare a «Inchiostro» è stato praticamente naturale. Immagino che all’epoca fosse molto diverso da ora. Non mi ricordo chi fosse il direttore quando entrai ma poco dopo arrivò Luna Orlando, la mia direttrice d’allora e poi mi ricordo Alessio Palmero. In effetti è stato con «Inchiostro» che sono gradatamente passato dalla scrittura alla fotografia. Mi ricordo un’intervista che feci ad Andrea de Carlo, che credo fosse venuto in università, e poi intervistai assieme a una piccola delegazione il mitico Francesco Guccini alla prima del concerto al Palaravizza. Di questa intervista ho un piccolo aneddoto divertente da raccontare: andai a parlare con il professore di semiotica di allora, che sapevo avere dei contatti con Roberto Vecchioni, e gli chiesi se poteva mettermi in contatto con Guccini. Lui mi rimanda da tale prof. Cremante, docente di letteratura. Mi presento a ricevimento da lui, parlandogli di noi, del giornale e dell’intervista che volevamo fare, e questi, dopo aver aperto una rubrichetta apparentemente insignificante, scorre il dito fino a un numero che poi compone. Quindi dice: “Ciao Francesco sono Renzo. Senti, io ho qua dei ragazzi che vorrebbero intervistarti…”; puoi capire bene la nostra emozione, per non dire totale spaesamento, nel sapere che all’altro lato della cornetta c’era Francesco Guccini. Fu una bellissima esperienza e al concerto vero e proprio Guccini stesso ripropose qualche pensiero dall’intervista stessa. Ma del resto quello del reporter, così come quello del fotografo, sono lavori così: ti permettono di stare in posti dove altrimenti non saresti giustificato a stare. Questa è una riflessione che maturai assieme a un amico e collega ad Atene qualche tempo fa.

Infine, Matteo mi confida che il suo prossimo progetto riguarderà i soggetti immuno-depressi, patologia di cui soffre anche lui sebbene in una forma più lieve. Il suo scopo sarà proprio quello di documentare la vita di queste persone e i loro compromessi, spesso molto duri, per vivere, quando non sopravvivere, in una condizione difficile come la loro. Per il resto non ci resta che augurare a Matteo ogni bene per il futuro e a noi di chiacchierare di nuovo presto, magari proprio alla prossima mostra. E ai prossimi incroci.

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