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Un inno alla vita in Blade Runner

L’impatto della settima arte nella cultura in poco più di cento anni è stato straordinariamente incisivo. Anche la nostra esperienza verbale quotidiana è segnata dal cinema e dalle sue frasi celebri e, in questo particolare ambito, è impossibile non ricordare il celebre monologo finale di Blade Runner (Ridley Scott, 1982), fra i più memorabili e citati, anche se molto spesso erroneamente. In attesa di poter vedere Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017), seguito dell’opera proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche, la mente torna agli ultimi momenti del primo capitolo: la fuga di Deckard e Rachael e, ancora prima, la struggente morte del replicante Roy Batty, probabilmente il più memorabile simbolo di questa storia. L’addio dell’androide e le sue ultime parole hanno un valore senza tempo e portano una domanda di grande peso: può un essere artificiale insegnare all’Uomo il valore della vita?

L’inizio del breve monologo porta già con sé, in pochi atti e in una singola frase, un enorme peso per chi sa coglierlo. Roy, interpetato magistralmente da Rutger Hauer, si trova nella possibilità di decidere della vita del blade runner Rick Deckard, impersonato da Harrison Ford, appeso precariamente ad una trave e in procinto di scivolare nel vuoto. Roy aveva compreso poco prima di non poter posticipare in alcun modo il termine della sua vita prevista dai suoi costruttori e si era gettato all’inseguimento del cacciatore di androidi, sopraffatto dall’ira. Trovandosi però davanti ad un uomo indifeso e spaventato, così vicino alla morte, Roy riconosce in sé stesso un sentimento profondamente umano, l’empatia. Invece di porre fine alla vita del nemico, lo spietato replicante lo trae in salvo e, sotto la pioggia battente, sfoga la sua umanità, seppur artificiale, devolvendo i suoi ultimi istanti allo scopo di lasciare un grande messaggio. Lui, un essere artificiale, il surrogato di un vero uomo, si siede di fronte all’agente e rompe così il silenzio: “Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi”. Il fatto che gli ultimi istanti della sua esistenza siano dedicati al ricordo dev’essere un messaggio importante. La memoria, affettiva, articolata e sfumata dalla malinconia, è prerogativa dell’Uomo, il quale la sfrutta per misurare il valore del suo passato. E Roy pone qui un confronto importane, dicendo addirittura che le sue memorie, anche se sviluppate nella brevità di una vita durata quattro anni, sono in qualche modo più stupefacenti di quelle che un individuo qualunque potrebbe vedere. Egli sottolinea così un primo insegnamento fondamentale: non è la durata della vita ma la qualità delle esperienze a determinare la bellezza dell’esistenza.

Successivamente a questa introduzione, l’androide cita alcune delle cose meravigliose e stupefacenti di cui è stato testimone. Nel film non viene mai mostrato ciò di cui parla, tanto da rendere difficile capire cosa siano i “raggi B” (“C-Beams” in originale, adattato diversamente per esigenze di doppiaggio) e le fantomatiche ma suggestive “porte di Tannhäuser”. Si può intuire che il replicante, durante la sua permanenza nelle colonie extra-mondo, abbia preso parte ad alcune battaglie, ipotesi avvalorata dal fatto che l’impiego in campo militare spiegherebbe anche le doti fisiche superiori di questi individui artificiali. Ad ogni modo, la bellezza del discorso è avvalorata da queste memorie incredibili che lo spettatore non può che immaginarsi, rendendo ancora più stimolanti le sue parole.

Ciò che segue è il preludio della fine di Batty: “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”, spiega, manifestando tutto il suo rammarico nel vedere la morte ad un passo. La breve parentesi di Roy Batty in questo mondo si sta per chiudere ed egli si rassegna all’idea che di lui, fra pochi istanti, non resterà che il ricordo, dopodiché pure questo scomparirà col tempo. Al contempo se ne andranno i suoi di ricordi, ora così vividi ma anche così evanescenti, di cui abbiamo potuto avere solo un assaggio, poiché niente di più è trasmissibile di quelle esperienze meravigliose. La sua anima sta per spegnersi, ma è un’anima che Roy sa di aver difeso e di aver nutrito più di quella di qualunque umano, rendendolo qualcosa più intenso di un uomo, pur essendo lui materialmente solo una sua imitazione. L’unica nota rincuorante è quella di aver potuto dimostrare la sua vera essenza a Deckard, esibendo pietà, nostalgia e tristezza in pochi attimi. Egli trasmette così una prova tangibile di ciò che è capace di sperimentare, pur nella sua caducità, una macchina antropomorfe concepita al solo scopo di essere uno schiavo.

“È tempo di morire”, conclude, per poi chinare il capo, chiudere gli occhi e spegnere la fiamma della sua umanità. Ciò che resta è un’enorme manifestazione di essenza cosciente, che lascia Deckard sconvolto. Quello cui il blade runner ha appena assistito è l’apice del percorso psichico di un individuo speciale, capace di sviluppare una sensibilità straripante in pochissimo tempo. Precisamente, la consapevolezza di non poter fare niente per evitare una fine troppo vicina lo spinge a riallineare totalmente il suo punto di vista. Da spietato assassino diviene un essere che riesce a trascendere il banale attaccamento dell’umanità alla vita, accettandone infine la fugacità. Accettazione che emerge però insieme al rispetto per l’esistenza altrui, una presa di coscienza che lo porta a salvare il suo ultimo nemico dalla morte.

L’eredità dell’ultimo replicante ribelle è oltre la semplice dimostrazione del fatto che una creazione sintetica può rivelarsi il più vero fra gli umani. Roy Batty ci insegna anche che l’unica sconfitta che possiamo infliggere alla morte è la consapevolezza di quanto valore sia possibile accumulare con la propria presenza. L’ultimo stadio dell’evoluzione di questo personaggio stupendo è una sorta di Oltreuomo che affronta a testa alta la morte, brandendo contro di essa la bellezza dell’esserci pienamente.

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