Cultura

“Twilight”: ricetta di una saga

di Erica Gazzoldi

Ha conquistato milioni di lettori e di spettatori. La saga di Twilight non brilla per raffinatezza o innovazione, ma si è dimostrata un prodotto di sicuro successo. Di un’umbratile “Steph” ha fatto la popolarissima Stephenie Meyer.
Chi ha letto anche uno solo dei quattro volumi può amare o odiare la saga, ma non disconoscerne alcuni pregi elementari: intreccio serrato, umorismo, prosa scorrevole ed appello ai sentimenti basilari. Tutto ciò sarebbe già sufficiente per far approdare l’opera alle librerie e ricavarne un certo gruzzolo.
Ciò che la Meyer aggiunge è un amalgama di reminiscenze letterarie, quelle che ella possiede come laureata in letteratura inglese. I quattro episodi si aprono con allusioni, rispettivamente, a: la Genesi; Romeo e Giulietta; Robert Frost; Edna St. Vincent Millay e Empire di Orson Scott Card. I protagonisti leggono opere di William Shakespeare, Emily Brontë e Jane Austen. Edward stesso –il vampiro innamorato- ha tratti del gentiluomo d’altri tempi: una fusione fra il suo omonimo Edward (Senso e sensibilità), Heathcliff (Cime tempestose) ed il proverbiale Romeo. Il partner ideale per una lettrice accanita come Bella. Lei è silenziosa, solitaria ed anticonformista: un alter ego di “Steph”? Di sicuro, è colei che fa inclinare l’incubo verso la fiaba e plasma le vicende, a dispetto del fatalista Edward.
I quattro episodi (Twilight; New Moon; Eclipse; Breaking Dawn) formano un filo conduttore legato ai fenomeni astronomici. Un fattore di sicura suggestione: le stelle, da millenni, sono connesse con il mito ed il destino.
Per i lettori nostrani, poi, è sicuramente curioso vedersi con gli occhi di una letterata britannica. L’Italia compare come “altrove” romanzesco, condensato nel fascino medioevale di Volterra. I Volturi portano nomi latini, eruditi. La penisola è il teatro dei drammi foschi, come lo era per i tragediografi elisabettiani. In questo prosaico periodo, sembrerebbe impossibile vedere l’Italia così, come terra di miraggi letterari.
Gli appassionati del genere non possono che riconoscere il debito con Anne Rice e Christopher Pike. La prima ha inaugurato “il vampiro del XX secolo” (prof. Matei Cazacu): sensuale, tormentato doppio dell’uomo, a lui si svela in una “normale” intervista. Il secondo è il creatore dell’Ultimo vampiro, la plurimillenaria Alisa Perne. Assai meno letteraria, incrocio fra una splendida belva e l’eroina d’un film d’azione, ma combattuta fra sentimenti e destino. Data la longevità, impersona anche i segreti della storia e gli antichi miti.
La Meyer ha raccolto questa eredità, rendendola digeribile per un pubblico più vasto. La saga di Twilight, infatti, piace molto anche ai giovanissimi. I liquori forti della Rice e di Pike sono stemperati con i sogni ed i complessi adolescenziali. Il grande assente è Bram Stoker, pressoché accantonato, se non per qualche cenno ironico, o per le paure di Edward circa la propria natura “demoniaca”. Nulla a che vedere con Lasciami entrare di John A. Lindqvist, tradotto per il cinema da Tomas Alfredson: un distacco lucido e lacerante dagli stereotipi letterari, proprio ora che la Meyer li ha rielaborati in versione pop. Nei suoi romanzi, i vampiri sono amici. I migliori per chi, come “Steph”, ama lo zombie humour. La letteratura gothic offre gazebi cupi, ma confortevoli; i Muse in sottofondo fanno il resto. In questo riparo, si possono affrontare anche temi spinosi: l’aggressività che si cela nella passione; le scissioni interiori; il legame d’amore-morte nella maternità (in Italia, sbrigativamente liquidato come “abortismo o antiabortismo”). Ma chi trova che la saga sia troppo commerciale per questo può sempre porre i Cullen accanto a Sandokan, Mowgli, Harry Potter e tutti gli altri eroi che ci hanno appassionato da ragazzini. Dopotutto –citerebbe la Meyer- L’infanzia è il regno dove nessuno muore.

 

3 pensieri riguardo ““Twilight”: ricetta di una saga

  • Elena Fiori

    Il mio unico contatto con questa saga è stata la visione, del tutto casuale, del primo film, che per la verità ho trovato piuttosto noioso. Se la trama del libro, come immagino, è la stessa, dubito che potrò mai diventarne una grande fan.
    In compenso ho trovato bella, ma davvero bella, l’idea del vampiro come specie biologica che l’evoluzione ha finito per far corrispondere all’ideale estetico della sua preda naturale, proprio per attirarla irresistibilmente. E’ una trovata originale, che secondo me avrebbe potuto essere sviluppata in una trama molto migliore, senza tutta la manfrina da adolescenti in crisi.
    Ho letto con interesse questo tuo articolo perchè è approfondito e pieno di notizie e retroscena curiosi. Ottimo lavoro, davvero! 🙂

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  • Alberto Muti

    NOTA: questa mia risposta ad Erica è nata su Facebook.

    Lo ammetto. Odio Twilight. lo odio con forza, con passione, con istinto. E ammetto di nopn averlo letto. ho visto uno dei film, ho parlato a lungo con alcuni fan.
    Concordo con te in buona parte della recensione: è certamente ben costruito. è certamente quel gotico che fa da gazebo ombroso, ma comodo (ottima espressione, ottima davvero). E i richiiami, per come li presenti, sono interessanti, soprattutto quelli all’italia (mi permetto di suggerire un’aggiunta: la letteratura gotica inglese stessa: The Castle of Otranto!). non è una cosa “sciocca”, non è quell’Eragon di christopher paolini, costruito con goffezza incapace.

    Eppure lo odio ancora, lo odio di più. perchè secondo me è un Veleno. E se è un veleno ben fatto, tanto peggio. Una volta, nel mezzo di una libreria, mi sono incazzato parlandone con un amico, e ho detto una frase che io stesso non avevo ancora capito: “Annacqua il nostro inconscio collettivo”.
    Sono un po’ Campbelliano, come vedute: credo che le storie abbiano un impatto sulla vita vera, credo che i simboli abbiano potere. E twilight, e ancor di più l’ondata di vampirelli alla moda a cui twilight ha aperto la porta, la storia, il simbolo del vampiro, li distrugge. Cosa posso imparare dal vampiro? cosa ci posso trovare? è uomo e bestia, è grande e terribile. è creatura di profondi tormenti, di terrore e meraviglia, anche di grandi passioni (motivo per cui, ancora ancora, sopporto la Rice).

    Edward? Edward no. Edward è buono, Edward è un gentiluomo, il cui unico difetto sembra essere ciò che lui teme di se stesso. Edward al sole luccica. E non è solo una cosa che non incontra il mio gusto, mi sembra proprio un simbolo. Dove c’era, nel cuore della figura del vampiro, una straziante lotta, una separazione incolmabile (e angosciosa), c’è poco più che make-up.
    E’ per questo che incenso Lasciami entrare, che tu citi: perchè, portando la storia del vampiro nella narrativa contemporanea, ne preserva, adattandola, la forza. Ma ho tanto l’impressione, che qui invece non ci sia niente.

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  • Elena Fiori

    NOTA: Anche questo mio commento è nato su Facebook.

    Non sono del tutto d’accordo sul fatto che sia ben costruito, Alby. O meglio, distinguirei fra un romanzo ben costruito e un successo editoriale ben costruito.
    Ripeto, non ho letto il libro, ma ciò che mi sembra di poter concludere riguardo alla trama è che l’autrice abbia combinato una serie di clichè da drammi d’adolescenza, facendo leva, appunto, sui bassi istinti del lettore. Il che è senz’altro garanzia di un forte impatto emotivo: difficile sottrarvisi. Solo una mente che abbia avuto un approccio con un tipo ben diverso di cultura – quella vera, per fare un esempio – sa difendersene, e cercare una soddisfazione più profonda e autentica anche se (o, forse, proprio perchè) meno immediata.
    Un romanzo ben costruito può essere noioso, ‘pesante’ – non banale, però. Un successo editoriale, ben pianificato, non è mai noioso, tutt’altro. Immagino che siano scritti in inglese fluente, questi libri; periodi brevi, parole pregnanti sbattute lì solo per il gusto dell’enfasi; probabilmente la Meyer tiene veramente il lettore incollato alla pagina – e che ci vuole, in fondo?
    Resta l’intoppo che tutto ciò non ne fa un buon romanzo.

    E qui mi trovi del tutto d’accordo sulla questione dell’annacquamento dell’inconscio collettivo. “Quando i suoi vampiri luccicano, si vede che una generazione ha fallito” appariva qua e là sul web nei mesi scorsi. Se aggiungiamo questo nuovo gentleman a catarifrangenti nell’elenco delle icone di questi tempi, dio quanto, ma quanto, si fa triste il panorama.
    Ma, sai cosa, confesso che quel che più fa rabbia, in tutto questo, è vedere che una buona idea venga sprecata in questo modo. Voglio dire, scegliere di non inserirsi nel filone del tradizionale canini-a-punta-niente-aglio-in-tavola non è di per sé una scelta malvagia. Il fatto che il vampiro non sia il cugino tecnologico di Vlad Tepes, ci può anche stare. Anche l’idea di cambiare un vecchio archetipo con uno nuovo e più fresco funziona – stavolta non avremmo un mostro titanico nella sua ferocia e nelle sue passioni, ma un animale sconfitto che vorrebbe sfidare il nemico più banale, crudele e invincibile contro cui ribellarsi: il proprio patrimonio genetico. E’ condannato a essere di una bellezza sovrannaturale perchè, semplicemente, è questo che attira le sue prede, e persino una “condanna” simile potrebbe non suonare ridicola, nel contesto giusto. Sarei persino arrivata ad accettare che la coprotagonista potesse essere una ragazzina, come nella saga – più vulnerabile, e più perverso oggetto di desiderio per una creatura millenaria (si vede che ho letto Lolita, eh? Sarò io, ma… vabbè). Avrebbe potuto essere una bellissima storia.
    Il punto è che se questo ammirevole punto di partenza lo impasti con una dose massiccia di balli di fine anno, pelli diafane su figura filiforme, conflitti coi genitori, insegnanti assenti, queen bees e wannabes – e, soprattutto, con rivalità vecchie di secoli fra clan di creature portentose (lupi mannari vs. vampiri, che noia), contrasti che riemergono dal passato remoto e – mi sto rompendo anche solo a cercare di elencarle quindi la finisco qui – insomma se, poeticamente, mischi due o tre perle a chili di cibo per porci, quel che resta è, inevitabilmente, cibo per porci che, al massimo, brillerà un po’. Come Edward, sì.
    Bene, tutto ciò perchè sei una dannata incapace – l’intuizione iniziale non ti salva – e, immagino, perchè vuoi vendere più copie. Padronissima di farlo, per carità, ma non sperare nella stima intellettuale di chi, di leggere, è ancora in grado.
    Ed ecco che il Male non mi sembra, in sé, il simbolo di questo nuovo vampiro che non ha nulla da insegnare. Il Male è che uno scritto mediocre finisca sul comodino di milioni di lettori, perchè questi, nemmeno a quattordici anni (non sono affatto pochi, se posso), sono in grado di difendersi da una porcheria, e la idolatrano.

    Sono d’accordo sul potere e sull’influenza dei simboli, ma non riesco a indicare una vera e propria responsabilità dell’autore che dà vita al simbolo in questione. Sarebbe bello se volesse anche insegnare qualcosa, ma forse è chiedergli troppo, ci vuol gente di ben altra levatura. Non riesco neanche a dare la colpa al simbolo, che di per sé è piuttosto insignificante. Edward è un personaggio, e ha tutto il diritto di starsene lì tranquillo. Che poi tu lo innalzi a idolo della tua giovinezza, ecco, quello è un problema – ma forse è un problema tuo.

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