Attualità

Tre ombre per la grande alleanza del dopo Monti

di Tommaso Pepe

Dopo le dichiarazioni del Premier al Council on Foreign Relations, nelle quali Monti si è detto disponibile ad un rinnovo del suo impegno dopo le prossime elezioni, il dibattito sulla futura coalizione politica che dovrà guidare il paese si è ulteriormente animato. Pd e Pdl per bocca dei rispettivi segretari si sono mostrati scettici. Lega, Idv e Sel hanno ribadito la loro contrarietà ad un allungamento del «governo dei banchieri e dei poteri forti». Un coro di voci entusiaste si è invece levato dallo schieramento centrista. Fini e Casini si sono gettati alle spalle la morte incruenta del Terzo Polo per ritentare la strada di un’improbabile convivenza fra destra laicista e moderati cattolici. Un forte segnale di approvazione è giunto anche dalla formazione non politica di Montezemolo, Italia Futura.

La disponibilità di Monti rappresenta un evento in sé positivo: arricchisce l’offerta politica italiana di una figura di grande spessore istituzionale e indiscussa credibilità all’estero. Questo beneficio sarà però minore se l’offerta di Monti avrà l’effetto di ridurre la capacità di scelta degli elettori. È questo un nodo fondamentale sul quale il premier avrà certamente riflettuto a lungo.

Il progetto politico accarezzato dalla maggior parte dei politici favorevoli a un rinnovo della premiership di Monti è quello del governo di larghe intese, una «grande alleanza dei moderati» che ridia governabilità e stabilità al paese. È un disegno non privo di elementi di forza, che diventerebbe più credibile se i suoi fautori indicassero anche una forza politica che faccia da pilastro al sistema, dandogli coerenza.

Sul progetto della alleanza centrista gravano però almeno tre ombre. Troppo forte è il rischio di vedere in questo grande schieramento moderato una scialuppa di salvataggio per tutte le «bande», i gruppuscoli e le ambigue figure che hanno imperversato durante il collasso del berlusconismo. La parte peggiore del Pdl, quella più tiepida del Pd, i finiani dispersi e altri ancora non attendono altro per ricostruirsi un volto nuovo. È un’occasione ghiotta per la prosecuzione della mala politica di questi ultimi anni, con un’aggravante in più: a differenza del bipolarismo, il sistema delle larghe intese funziona anche senza alternanza di governo, e la mancanza di ricambio permette alle forze del trasformismo di insediarsi ancora più stabilmente nelle strutture dello stato, facendole marcire.

Ma ci sono altri due punti da considerare. Superare il bipolarismo da stabilità al paese, ma può rendere faticoso cambiare e voltare pagina, mentre l’Italia ha un fortissimo bisogno di svoltare per approdare a qualcosa di nuovo dopo il fallimento plateale dell’ultimo decennio. Liberismo o socialdemocrazia, moderati o progressisti, bisogna imboccare una strada chiara. I temi sociali e civili impongo scelte: in che modo rimodulare il carico fiscale, gli incentivi alle imprese e gli ammortizzatori sociali, ma anche che risposta dare alle domande sulla bioetica e sui diritti civili o ai temi dell’immigrazione. Di fronte a questi temi il rischio di una grande coalizione è quello di non scegliere: non mirando a destra né a sinistra rimane ferma.

Soprattutto l’opzione della grande alleanza di centro rischia di ridurre sensibilmente il diritto dell’elettore a poter scegliere fra progetti politici distinti e diversificati, alterando le regole della democrazia. Il cittadino ha il diritto di optare per una terza via moderata, né conservatrice né progressista. Ma la costruzione di un grande centro non rischia di respingere ai margini le alternative, siano esse di destra liberale o sinistra socialdemocratica?

Torneremmo indietro a un vecchio centro di democristiana memoria, una democrazia a scartamento ridotto con un solo grande binario obbligato. Esperienza che il nostro paese ha già avuto in passato e che sappiamo dove andò a parare.

 

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