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“Trasparenza” di Maria Borio: «tutt’altro che una serena esplorazione»

«Trasparente / se la verifichi, ma tutt’altro che una serena esplorazione»: sono parole di Amelia Rosselli, poste significativamente in apertura della più recente raccolta di Maria Borio, Trasparenza (“Lyra giovani”, a cura di Franco Buffoni, Interlinea, 2018). Tutt’altro che sereno infatti, ma incredibilmente lucido e penetrante lo sguardo poetico che, in questo volume, sembra quasi operare un movimento incisorio in senso verticale nello spessore del reale, perpendicolarmente rispetto alla stratificazione fenomenologica, per posarsi poi sulla sezione che ne risulta e tutto comprendere in sé.

Maria Borio (1985) è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in Letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte L’altro limite (Pordenonelegge-LietoColle 2017 – Premio Maconi 2018 e Premio “Opera Prima” Città di Fiumicino 2018) e Trasparenza (“Lyra giovani”, a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2018). Sue poesie sono presenti nel XII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos 2015) e nell’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90 (Internopoesia 2018, a cura di Giulia Martini). Ha inoltre scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra 2013) e Poetiche e individui (Marsilio 2018) ed è curatrice della sezione poesia di «Nuovi Argomenti».

La sua ultima raccolta poetica è dialetticamente articolata in tre sezioni: Il Puro, L’Impuro, Il Trasparente. La tesi, l’antitesi, la sintesi, dunque; tre momenti dei quali l’ultimo vuole in qualche modo essere quello della totalità, comprensivo dei due ad esso precedenti e tra di loro opposti. È dunque la ricerca di una sintesi armonica, che coniughi le alterità, ad attraversare e condurre l’intera raccolta. Un’armonia che è possibile soltanto nel momento in cui il Puro, che non può prescindere dal suo contrario, include in se stesso l’Impuro, allorché il nostro sguardo è in grado di affrontare ed appropriarsi della visione di tale sintesi. Una sintesi che la stessa Borio accosta, per valenza simbolica, a quella operata da Marcel Duchamp con la realizzazione del Grande Vetro: lastra di vetro contenente al suo interno svariati oggetti, riconoscibili e non, che ne turbano la percezione; creazione che permette, in virtù della sua trasparenza, la coesistenza al suo interno di Puro e Impuro e il loro contemporaneo apprendimento, la loro contemporanea visione.

 

meccanica e carne invisibili lavorano

e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro

entrando uscendo dal grande vetro

come l’arte afona e oscura di Duchamp

taglia a sezioni

 

Visione, abbiamo detto: è infatti la vista il senso dominante in questa raccolta poetica, una vista che ha poco a che fare con il sensoriale, o meglio: che ha a che fare con il sensoriale non meno di quanto non ce l’abbia con ciò che propriamente sensoriale non è («Mi fermo per guardare come corrono le ruote: volevi dire, / capisco il rumore che taglia i timpani, rompe la retina. / Ogni suono nell’iride è ondulato»). La penetrazione di un dato limite è lo scopo che l’indagine qui si prefigge, con uno sguardo che è di fatto mentale, ma che ovviamente non prescinde dal fisico. Limite che è costitutivo dello stesso atto della visione ma anche, come vedremo, dello stesso atto dell’esistere. Un’indagine quindi profondamente conoscitiva, che passa attraverso lo sguardo e che si muove in quegli ambiti limitrofi del reale che si legano alla presenza di un confine spaziale, temporale e visivo, e alla possibilità o meno di guardarvi oltre, di essere attraversati: il vetro, la nebbia, l’orizzonte, lo schermo, il cielo:

Il cielo è trasparente. Il cielo è armonia: significa collegamento, connessione, come viviamo l’era, come dice solitudine trasmessa, guerra, pace, virtuale. Rete e corpo si schiudono, gli ologrammi strappano la natura al cielo e la fondono ai sentimenti: queste cose fragili, per una volta. Queste cose fragili rendile libere e unite al di sopra, al di sopra, al di sopra.

Si è parlato inizialmente di un movimento quasi incisorio, definizione però forse troppo chirurgica: lo sguardo dell’autrice attraversa infatti lieve, fluido, senza fratture, questi luoghi mentali di un universo poetico che, come evidenzia Italo Testa nell’introduzione ai versi della Borio nel volume Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, è caratterizzato da una permeabilità di fondo «tra interno e esterno, sfondo e figura, mente e paesaggio»:

 

trapassare quello che si vede e se stessi in quello

che si vede – unire la collina e il mare in un solo punto luce

 

e gli incroci e le piazze agli angoli della stanza, gli angoli

in un solo punto luce che sono io.

 

Un paesaggio che abitiamo e dal quale siamo abitati, nel quale non confini quindi, ma soglie labili e mobilissime, trasparenti, fragili quanto la sostanza identitaria dell’io, che esiste e sussiste in virtù di questa permeabilità, della sua transitività.

 

Lì e qui

 

portano un cosmo e noi fragili, indivisi

con i piedi nell’acqua bruciamo l’io

che può essere tu, il tu che può essere io.

 

E di qui il possibile riferimento della poesia della Borio al pensiero di Jean-Luc Nancy, alla sua idea di essere singolare plurale – condizione costitutiva dell’essere: «Essere singolare plurale significa: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza; ma co-essenza o l’essere-con-l’essere-in-tanti-con designa a sua volta l’essenza del co-, o ancora meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza» – all’idea che l’essere sia al contempo singolarmente plurale e pluralmente singolare, e dunque che tutto ciò che esiste necessariamente coesiste. Ecco che la voce poetica si occupa proprio di attraversare e muoversi nei diversi e mobili spazi di questa coesistenza. Non di meno, l’autrice volge lo sguardo anche verso una realtà contemporanea sempre più intrinsecamente digitale – frammentata, moltiplicata ed estensiva – comprendendola interamente in sé, mettendola in relazione. Dagli accostamenti che la Borio opera tra una dimensione astorica, lenta, naturale e una invece tecnologica, frenetica e in perpetua accelerazione emerge l’intento, l’urgenza, forse, di ricucire i pezzi. Operazione che non prende tuttavia le mosse da una critica alla frantumazione della nostra realtà contemporanea in un confuso mosaico digitale, quanto piuttosto dalla contemplazione del moltiplicarsi delle possibilità di connessione offerte proprio da questa frantumazione («Tu sono io nello schermo, io è tutti»). Si tratta, insomma, di «sapersi avvicinare. / Così vediamo l’enigma della distanza / dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato», di approssimarsi, di far sì che le pluralità, gli altri, gli occhi si tocchino.

 

tutto assorbe quella cosa reale

 

che era gli occhi di una persona

che faceva spazio, una persona

in un’altra entrava – l’aria

 

che ci fa vivere, non ci fa fermare

– una persona che teneva dentro

l’altra come il vetro prima di essere

 

sabbia e fuoco in fusione. Cosa vale

questa immagine? A quale parola simile

fra tante, tra corpo e finestrino?

 

[…]

 

Una polvere scende nell’immagine di quella

persona senza abitarla, senza farsi abitare

– adesso è la sagoma di tutti, leggera.

 

Nella polvere l’altra persona si propaga

dice anima che è il vuoto, per fare di loro

una cosa unica – il corpo e il riflesso

 

possono abitarsi, ma per essere nulla

della prima persona, solo altro spazio

della seconda che si allunga, respira

 

lasciando vuoto – e il vuoto è il suo

potere, la solitudine degli altri.

 

Si è rotta dentro il vetro, sottile,

per chiedere un tempo vero…

 

Si erano abitati.

 

Atto di avvicinamento, quello operato dalla voce poetante, che implica per sua stessa definizione la sussistenza di due poli distanti. Dunque la ricerca dell’armonia, come si è detto, non può prescindere dall’Impuro, dall’assimilazione e dalla comprensione del momento della frammentazione, dalla presa d’atto dell’estrema e insanabile scissione legata alla precarietà e alla fragilità dell’uomo, al suo limite, alle «idee sparse sopra l’orizzonte» che sono adesso, non per sempre.

 

Del male che invece

brucia per cecità:

 

l’uomo diviso per se stesso, come capire che qualsiasi numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero. Ma questo non è la fine del mondo, perché la vita è propria di divisioni infinite. Ma l’uomo ha iniziato a pensarsi eterno dividendo, ogni uomo come un centimetro di spazio. Lo spazio si satura a mosaico, verità individuali spingono le une contro le altre, asteroidi dentro ogni cellula.

 

[…]

 

Del male che dividi per zero

e mai zero diventa:

 

la volontà si prolunga – sul libro dei nomi in un cimitero di guerra; del male che raccontano e del male che esiste, del male che non si fa invisibile – in zero. Piantato nel midollo di una donna che vuole essere uomo, di un uomo che vuole essere donna, di identità che sarà quando potremo dividere tutto per zero, zero per zero, le rondini nello zero quando dalla costa migrano

 

all’altro zero incorruttibile.

 

Solo allora, infine, la sintesi; la quale, forse, può compiersi ed essere espressa soltanto nell’assenza di suono, perché «se restiamo in silenzio siamo conduzione»: «silenzio: con quale altra parola vuoi raggiungermi? […] Con quale altra parola cerchiamo di vivere per sempre?». Dunque sì, il raggiungimento di una composizione, ma mai pacificata: essa sta infatti nel porsi degli uni davanti agli altri, dell’io davanti all’altro, davanti a se stesso, e nel riconoscimento dell’alterità come parte costitutiva della nostra co-esistenza. E il raggiungimento della visione di tale composizione, di tale sintesi, si compie come l’arrivo, silenzioso, di un mattino:

 

Intorno, il posto adesso è trasparente.

 

Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.

In mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:

 

si accoppiano e i frutti cadono, dicono

cosa siamo, come ci siamo immaginati.

 

È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro

– essere la prospettiva fragile e forte

 

per chi ci ha abitato, chi ci abita.

 

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