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Tracks – Attraverso il deserto

Erano gli anni ’70 quando la prima vera crisi petrolifera teneva in scacco il mondo economico, quando le giovani generazioni erano ormai abituate alla cultura hippie, erano gli anni ’70 quando una giovane australiana non si sentiva a proprio agio con la sua generazione e decideva di voler vivere l’ebbrezza  che viene offerta dal superamento dei propri limiti, sfidando la natura e gli inganni della sua giovinezza.

Prendendo ispirazione dal padre, che nel 1935 aveva attraversato il deserto Kalahari , Robyn Davidson inizia a organizzare la sua folle idea: attraversare a piedi il deserto australiano, partendo da Alice Springs per arrivare dopo circa 2700 km all’Oceano Indiano.

Il film, tratto dal libro autobiografico Tracks, è stato presentato alla 70esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Se il progetto originario è del 1993 e prevedeva Julia Roberts come protagonista, la pellicola vede la luce con un secondo tentativo nel 2012 quando il regista John Curran (Il velo dipinto, Stone) inizia le riprese avendo Mia Wasikowska nei panni di Robyn Davidson.

Decidere di agire è stato il vero inizio del viaggio. Quando sei immobile da troppo tempo non ti resta che gettare tutto all’aria e buttarti… e pregare.”

E così la giovane prepara l’avventura della sua vita. Prima di partire lavora presso degli allevamenti di cammelli per imparare ad addomesticarli e interagire con loro. La National Geographic decide di sponsorizzare la sua impresa con 4 mila dollari e le mette a disposizione il fotografo Rick Smolan, che per desiderio della stessa Robyn non la seguirà ma la incontrerà saltuariamente in punti prestabiliti, dato che alla giovane questa presenza risulta troppo invadente nell’infinita solitudine che il deserto regala alla determinazione dei folli che cercano la libertà e difatti il loro sarà un rapporto a volte scontroso.

Nel 1977 dopo aver finito i preparativi, a soli 27 anni, Robyn Davidson inizia la lunga marcia in compagnia del suo cane, 3 dromedari adulti e un cucciolo, addomesticati da lei stessa. Tranne una piccola parte del viaggio dove sarà accompagnata da un anziano aborigeno in modo da poter attraversare dei territori sacri per i nativi australiani, la giovane attraverserà in solitaria questo spietato luogo. L’incontro con l’anziano porterà Robyn a conoscere meglio questa antica cultura e la spingerà successivamente a militare per i diritti degli aborigeni.

E’ facilmente intuibile che a parte le fatiche e i rischi fisici, una delle sfide maggiori in un’impresa del genere sia quella psicologica: la completa solitudine mentale può portare chiunque alla disperazione e sull’orlo della follia. Per evitare che questa solitudine venga trasmessa allo spettatore sotto forma di noia, il regista ha inserito lungo il percorso della pellicola dei flashback dove la protagonista rivive momenti chiave della sua infanzia segnata dalla tragica fine della madre e la costante presenza dell’immagine del padre, tutto ciò accompagnato da una colonna sonora semplice ma molto profonda, come a voler trasporre sulle note della musica l’intensa semplicità della bellezza del deserto. Seguendo la stessa scia, la fotografia merita una menzione particolare in quanto dotata di inquadrature semplici ma ben studiate capaci di offrire allo spettatore una visione quasi di reale presenza nell’immagine stessa. A rafforzare questa sensazione è la fortunata scelta, da parte dei produttori, di colori molto naturali senza cadere nella banalità dell’esagerazione cromatica come spesso accade persino a film molto più conosciuti.

Questa pellicola rappresenta la trasposizione pura e cruda di un viaggio per cercare sé stessi e per dimostrare che si è capaci di qualunque cosa. E’ un viaggio interiore dove, più che scoprire cose nuove, si finisce per rendersi conto che il prezzo della libertà non è ciò che si fa per averla ma ciò che si paga per viverla.

Some nomads are at home everywhere.

Others are at home nowhere,

and I was one of those”.

(Robyn Davidson)

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