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Thor: Ragnarok, il Walhalla può attendere

Si legge nella Vǫluspá, l’equivalente della teogonia esiodea della mitologia norrena, alla strofa 52 “Surtur viene da sud/ col veleno dei rami. Splende la spada, /sole degli dei caduti. / Le rocce si frangono, /crollano gigantesse; /gli uomini vanno a Hela, /il cielo si schianta.” Con questi versi la Vǫlva, la sinistra profetessa di Odino, narra l’inizio del Ragnarǫk, letteralmente “il fato degli dei”. E in effetti in Thor: Ragnarok non mancano i mostri mitologici e i personaggi tipici citati dalla profetessa. Ma si sa, la mitologia tutta è suscettibile di interpretazioni, talvolta anche a distanza di anni, le quali stravolgono la visione originaria di un racconto (sempre che ve ne fosse una). Ad esempio il cinema contemporaneo permette oggigiorno a una mega produzione americana di far interpretare un poema nordico-germanico ad un commediografo neozelandese con protagonista un australiano. Magie della post-modernità diranno alcuni, scempi della globalizzazione sosteranno altri ma quello che importa è il risultato. Thor: Ragnarok di Taika Waititi è un film godibilissimo e gustoso ma la sua profondità è troppe volte oscurata da una ossessiva ricerca del comico a tutti i costi.

 

Dopo gli eventi di Thor: The Dark World (Alan Taylor, 2013) e Avengers: Age of Ultron (Joss Whedon, 2015) il dio del tuono, un Chris Hemsworth sempre in gran forma, torna ad Asgard per impedire l’avvento del Ragnarok, il crepuscolo degli dei, evento del quale aveva già avuto diverse visioni durante la lotta contro Ultron. Dopo aver detronizzato l’abusivo Loki, salito al trono con l’inganno alla fine del precedente film, il nostro protagonista dovrà affrontare Hela, la dea della morte, tornata da un lungo esilio per reclamare quello che, a suo dire, le spetta di diritto ovvero il regno celeste. Da qui la storia si divide su due binari paralleli; su uno Hela procede spedita nella conquista di Asgard, sull’altro Thor e Loki, letteralmente sbalzati via dal tempo e dallo spazio, approdano su Sakar dove tra tornei, lotte, rimpatriate e gag (tantissime gag), escogiteranno un modo per tornare a casa loro e scacciare l’affascinante invaditrice.

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Proprio per la parte di Hela i Marvel Studios meritano una menzione speciale per le coraggiose e importanti scelte per il personaggio. Se da un lato infatti la versione cinematografica differisce, genealogicamente parlando, da quella fumettistica e mitologica, dall’altro non si può che lodare la scelta di cast, semplicemente perfetta e impeccabile, e la costruzione di una rivalità tra il protagonista e l’antagonista che da tempo aspettavamo di vedere con un personaggio femminile. Già negli anni sessanta i fratelli Lieber e Jack Kirby avevano visionato una dea della morte distante dalla triste e grottesca figura della mitologia norrena ricreando una divinità degna di questo nome la cui scultorea bellezza bene si accordava con l’aura di inarrestabile potenza che emanava. Stiamo parlando di Hela, ma in fondo stiamo parlando anche di Cate Blanchett che in questo film sfrutta al massimo il suo fascino magnetico per regalarci il primo convincentissimo villain femminile dei Marvel Studios. La sua è un’interpretazione iconica e suggestiva, cucita ad hoc per le sue potenzialità sceniche e il suo tempo su schermo è sempre una gioia per gli occhi. Chris Hemsworth d’altro canto interpreta qui un Thor più scanzonato e mattacchione, talvolta pure troppo, e il divertimento che prova lui nell’impersonare un dio del tuono più simpatico e leggero non è lo stesso che possono provare gli spettatori “costretti” a una risata a volte forzata. Sempre ottimo Tom Hiddleston e il suo Loki: in questa storia la sua natura di trickster gli permette di oscillare tra comicità e seriosità senza perdere in credibilità. Sorprendente invece Tessa Thompson nei panni di Valchiria, un vero e proprio maschiaccio temibile e carismatico. Sottotono Mark Ruffalo la cui interpretazione di Bruce Banner, decisamente troppo comica, rasenta in alcuni dialoghi con Chris Hemsworth una demenzialità da sitcom. Simpatico e tanto è Jeff Goldblum nel ruolo del Gran Maestro, vera e propria macchietta narcisistica.

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Potremmo essere tentati di credere che il regista Taika Waititi sia perfettamente in scia con lo stile lanciato da James Gunn e i suoi Guardiani della Galassia ma sarebbe a mio avviso una generalizzazione troppo semplice. Se infatti la comicità di Gunn è volta non solo a una ricerca della risata ma anche a una dissacrazione ben pensata di molti topoi della narrativa occidentale, Waititi è invece in scia principalmente con il pubblico medio attuale che ingrassa il box-office ma ha paura di impegnarsi in tematiche più complesse. E non che manchino le tematiche importanti a cominciare da una più superficiale e immediata, il problema dei popoli senza più una patria fino alla decostruzione del mito maschile nel cinema e non solo (cos’è in fondo la distruzione del martello da parte di Hela se non una raffinata ed elegante allegoria dell’evirazione?) Thor: Ragnarok non è certo un film banale e lo dimostra la sceneggiatura e il finale molto legato all’attualità più impellente (“Asgard non è una città, è un popolo”) ma la scelta degli sceneggiatori e del regista di pendere pesantemente verso la commedia sgonfiano ogni intento di profondità per puntare invece alla leggerezza più semplice. Si esce dalla sala divertiti e soddisfatti ma con l’impressione che più che un film si sia visto un gigantesco meme.

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