Cultura

This must be the place: un viaggio interiore

di Federica Mordini

 

Spesso mi capita di sedermi in sala con un carico di aspettative verso il film a dir poco enorme.  Inesorabilmente queste  aspettative alimentate da pubblicità bombardanti, interviste a catena e critici dal “è stupendo” facile vengono deluse in massa. Quando ho deciso di andare a vedere “This must be the place” l’attesa e le speranze erano altrettanto gigantesche. Chiunque ha dichiarato che è un film da vedere. Ebbene per una volta queste aspettative non sono state tradite.

Cheyenne, interpretato dal magistrale trasformista Sean Penn, si insinua lentamente dentro ad ognuno e colpisce dritto al punto. La rockstar in pensione, con l’anima e l’aspetto di un Peter- pan dark, vive un’esistenza noiosa e routinaria nella sua magione irlandese con la moglie allegra e materna. Appare come  una macchia nera che girovaga dentro ad un ambiente colorato, è un cinquantenne visibilmente depresso, lento come un bradipo in totale asincronia rispetto ad un mondo che gira alla velocità della luce.

Cheyenne rappresenta il lato oscuro e nascosto che si cela infondo al cuore di ognuno di noi, quello che tutti fuggiamo perché affrontarlo sarebbe troppo doloroso.  Il peso di questa rinuncia, però, è più concreto che trascendentale, è quel carrello, quel trolley che Cheyenne si trascina ovunque vada accrescendo quell’alone di bizzarria che attira sguardi sprezzanti e stupore guardingo.  Ma il tempo è inclemente e costringe il protagonista ad intraprendere un viaggio verso quel nodo che serra la sua anima come un pugno, a fare i conti con un passato spinoso e pedante, che non può essere più rimandato.

Il padre ebreo, che non vede da 30 anni, vive in America e sta morendo di vecchiaia, “una malattia che non esiste” secondo Cheyenne. Ecco che in cima al suo bagaglio intraprendiamo il viaggio formativo in un mondo ingannevole, all’apparenza ordinario ma decisamente più strano di un uomo con rossetto e cerone, alla ricerca di quel criminale nazista che umiliò il padre ad Auschwitz.

Sorrentino ci catapulta in location mozzafiato e al tempo stesso inquinate da un no sense consumista, che svela bucando quel superficiale velo di Maya che la società moderna ha costruito a discapito della genuinità dei valori essenziali: l’amore, la verità, la vera creatività, la riconoscenza.  La colonna sonora ,composta da musiche di David Byrne dei Talking Heads in collaborazione con la band The pieces of Shit, è la seconda protagonista della pellicola ricorda a Cheyenne e agli spettatori che è necessario affrontare i propri scheletri nell’armadio prima che sia troppo tardi. Insomma “this must be the place”, and “time”, aggiungo io.

2 pensieri riguardo “This must be the place: un viaggio interiore

  • Irene Brusa

    Vado a vedere il film questa settimana, sono curiosa di capire se le aspettative saranno deluse, se addirittura ne nasceranno di nuove.

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