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There is no alternative

There is no alternative (TINA), il motto ultraliberista che vanta il sistema capitalistico come l’unico possibile, spopola oggi più che mai nel Regno Unito di Boris Johnson all’indomani dalla Brexit. A tal punto che l’anticapitalismo è una minaccia alla sicurezza pubblica che non si discute, si vieta direttamente in quanto ideologia estremista.

Siamo di fronte ad un caso emblematico di liberalismo autoritario1, ossimoro di un’Occidente sempre più schiavo delle leggi di mercato: mentre lo Stato si fa mano invisibile alla Adam Smith, un’economia globalizzata ed interdipendente prende le redini della res publica e la subordina alle proprie esigenze. Questo processo si nutre di una società di massa già sufficientemente appiattita ed omologata da un imperante populismo comunicativo, tramite mass media e social, accentuato dal lockdown e dal conseguente potenziamento della propaganda online e delle sue forme espressive. Ma il mondo del Web è il paradiso di slogan e frasi d’effetto dal tono acceso ed aggressivo a coprire un vuoto di contenuto. Frasi che, prive di argomentazioni, non lasciano spazio a confutazioni.
Far passare la volontà governativa come strettamente necessaria, come unica alternativa, è una tecnica usata già diverse volte nella storia per imprimere svolte autoritarie senza l’intralcio dei “lunghi ed inconcludenti dibattiti democratici.”

Coniato nei primi anni Ottanta dalla premier conservatrice Margaret Thatcher, l’acronimo TINA sostiene l’inevitabile ritorno al libero mercato ed il progressivo smantellamento del Welfare State per far fronte alla dilagante disoccupazione di un’Inghilterra provata dalle crisi petrolifere ed internazionali. Nell’ottica neoliberista, che riprende il pensiero del filosofo Herbert Spencer in chiave contemporanea, è inutile ostacolare l’affermarsi di libero mercato (free market), libero commercio (free trade) e globalizzazione economica (capitalist globalization): chi vi si oppone non è che un romantico fuori tempo, un ostinato Malavoglia prima o poi travolto dalla fiumana del progresso. E così la lady di ferro consacra il popolo inglese al dio denaro, riducendo la politica a tecnica esecutiva di un progetto inevitabile ed il dibattito democratico ad assenso incondizionato verso un governo che molti hanno bollato come dittatura mascherata dell’economia finanziaria.

Oggi, a quarant’anni di distanza, la posizione dei vertici britannici non è molto diversa e gode del supporto di buona parte di popolazione: in prima fila, l’arcivescovo di Canterbury, del resto ex-banchiere. In realtà, il consenso è in calo: ad agosto, Johnson poteva contare circa sul 40% dei cittadini, una percentuale sotto le aspettative, forse dovuta alle mosse poco felici con cui il premier si è destreggiato durante la pandemia.
Al di là dell’insuccesso del campione dell’immunità di gregge, il modello liberista è da sempre vincente nel Regno Unito, potremmo dire che giochi in casa, data la mentalità imprenditoriale e capitalistica da secoli radicata nella popolazione. Altrettanto solida, però, è la prassi democratica del dibattito aperto al confronto-scontro di opinioni, in un clima di tolleranza e di generale libertà espressiva.

Date tali premesse, la messa al bando delle posizioni anticapitalistiche poichè estremiste e pericolose appare inaspettata. Meglio, allarmante al punto da non stupire se un domani Boris Johnson venisse annoverato tra i Lukashenko d’Occidente, a fianco al suo omologo negli USA.
Perché c’è una differenza sostanziale tra Margaret Thatcher e la leadership attuale: la prima ha combattuto l’anticapitalismo sul piano ideologico e retorico, con aforismi sulla scia di TINA, ma anche pratico, varando riforme volte a demolire lo Stato del benessere, e tuttavia lo ha tollerato all’opposizione, laddove il governo Johnson non si sporca le mani affrontando il nemico, lo proibisce direttamente, cancellandolo dal dibattito politico ed economico con una manovra che ha tutte le caratteristiche di una censura.

Additare gli oppositori come minatori della sicurezza pubblica ed alimentare la paura sono ingredienti che le vicende dei totalitarismi europei del Novecento ci rendono sin troppo noti come strumento di facile manipolazione di una folla di una passività politica tanto diffusa quanto preoccupante, pronta a chinare il capo di fronte a chi fa la voce grossa.
Basti citare l’indifferenza dei più che ha accolto la messa all’indice di Extinction Rebellion, movimento per la questione climatica che, seppur radicale, è dichiaratamente pacifista ed ispirato alla lotta non violenta di personaggi quali Gandhi o Martin Luther King e che, invece, è stato bollato come organizzazione terroristica.
Per non parlare del parallelismo ai limiti del blasfemo con cui sono stati associati anticapitalismo ed antisemitismo, azzardando un estremismo di fondo che accomunerebbe le due correnti. Qualsiasi cittadino, liberista o no, con un minimo di coscienza politica non può restare indifferente ad un paragone di una simile scorrettezza storica, che per altro fa uso di una demagogia di così basso livello da sfiorare i limiti del volgare. Associare l’odio razziale che ha portato ad uno dei maggiori genocidi dell’umanità ad un’ideologia contraria al mondo capitalistico ed alle sue innegabili contraddizioni (tra cui lo sfruttamento stesso dei lavoratori) è a dir poco irrispettoso.

Il tutto è aggravato dal fatto che dietro questa squallida trovata propagandistica si celi il chiaro tentativo di zittire i dissensi, limitando le sacrosante libertà di opinione ed espressione, da secoli cardini delle democrazie occidentali e dei loro Diritti Umani.
E non sarebbe poi strano se, dietro ad un “innocuo” There is no alternative al capitalismo scorgessimo un ben più grave There is no alternative all’obbedienza acritica ed incondizionata del gregge verso i propri pastori.

Note

  1. Leonardo Clausi, Il Manifesto, 29 settembre 2020
  2. La foto in copertina è di Peter MacDiarmid, via Getty Images

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