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A tempo di libri: Dacia Maraini

Pioveva a dirotto il pomeriggio dell’11 marzo a Milano e non posso tenervi nascosta la forte tentazione di restare a casa fra le coperte che si era insediata in me, a vantaggio dell’inutile pigrizia. Ma di certo non volevo perdere l’occasione di incontrare la grandissima Dacia Maraini; scrittrice, poetessa, instancabile viaggiatrice. Una donna avventurosa con una vita non proprio usuale, dalle origini multietniche; la nonna paterna era inglese, mentre quella materna cilena. Il padre, Fosco Maraini era un antropologo che fece del viaggio la sua vita. In effetti quando lei aveva solo tre anni, nel 1938, si trasferirono, insieme alla madre e alle due sorelle, in Giappone; a seguito di una borsa di studio ottenuta dal padre, finalizzata alle ricerche su di una popolazione del nord del paese. Luogo che inizialmente li accolse, ma poi, quando i genitori di Dacia si rifiutarono di aderire alla repubblica di Salò nel 1943, li condannò e rinchiuse in un campo di concentramento. La liberazione della famiglia risale solo al 1945, quando gli americani sconfissero i giapponesi. L’autrice ricorda questi anni come devastanti: veniva data loro una sola ciotola di riso al giorno, soffrivano molto la fame (Dacia non nascose mai di aver mangiato lucertole, formiche e foglie di bachi da seta), erano continuamente offesi ed umiliati dai soldati.

Una volta liberati dovettero attendere ben sei mesi in una Tokyo completamente rasa al suolo, prima di imbarcarsi per la Sicilia. Ma le sfide erano tutt’altro che finite: l’Italia stava vivendo il periodo postbellico con molte difficoltà. Povertà e fame sembravano continuare a perseguitare la famiglia.

In seguito i genitori si separarono: la madre di Dacia, Topazia Alliata, rimase a Palermo, mentre Fosco si trasferì a Roma. Otto anni dopo la scrittrice lo raggiunse. Lei studiava e lavorava come archivista, poiché lo stipendio da ricercatore del padre non era sufficiente.

Nel frattempo Dacia conobbe l’uomo che poi divenne suo marito; il pittore Lucio Pozzi. Il loro matrimonio durò solo quattro anni prima della separazione. Subito dopo che Pozzi se ne andò, Dacia perse il bambino che teneva in grembo da sette mesi. Questo evento segnò in maniera drammatica la sua vita, determinando un forte periodo di crisi personale dal quale fu estremamente difficile rimettersi. Ma lei è sempre stata una donna forte, e parte di questa forza le venne infusa proprio dalla scrittura. Fu in questo periodo che scrisse il suo romanzo d’esordio, che ben presto concluse e portò all’editore Lerici. Quest’ultimo sicuramente apprezzò il romanzo, ma richiese la prefazione di un grande scrittore. Furono queste le circostanze che portarono all’incontro con Alberto Moravia, grande scrittore e grande amore di Dacia Maraini. Un amore dolce e tenero che durò circa 15 anni. Anni in cui ebbero modo di condividere tanti viaggi. Spesso soli, a volte in compagnia di uno dei più grandi amici di Moravia, Pier Paolo Pasolini. Un trio ben assortito; amavano conversare e divertirsi insieme. Scrittori di prestigio, mai di potere. Innamorati del mondo e della sua magnificenza.

Accantoniamo il passato con il rispetto dovuto, e ritorniamo ai giorni nostri.

Dacia, infatti, la scorsa domenica è stata invitata a Tempo di libri per presentare il suo nuovo libro: Tre donne, storie di amori e disamori. Una serie di vicende vissute e raccontate da tre donne: la nonna, la mamma e la figlia. La scrittrice non solo ha voluto, in questo libro, mettere a confronto fra loro tre diverse generazioni, ma anche riportare alla luce alcuni concetti significativi come la famiglia, l’amore e l’essere donna, raccontati con la giusta dose di emozione e di ironia, esattamente come solo lei sa fare.

All’incontro, durato circa un’ora, ha parlato della bellezza e della grandezza dell’amore, quando questo implica un certo impegno a lungo termine, paragonandolo ad una pianta che va coltivata con pazienza e dedizione se si vuole arrivare ai frutti. Ricordo che in una sua intervista, qualche anno fa, disse che le piaceva immaginare l’amore come un fungo che nasce dopo una notte di pioggia: una meraviglia improvvisa. Ha parlato soprattutto di famiglia; l’istituzione sociale per lei più importante. Non più come nido che accoglie, focolare che protegge, ma come luogo potenzialmente pericoloso. Oggi la l’istituzione familiare vive un periodo sofferente. Mentre prima esisteva una struttura all’interno della famiglia che era riconoscibile e riconosciuta dalla società, con l’evoluzione dei tempi, naturalmente il modello famiglia è cambiato. Oggi tende a basarsi sulla buona volontà, che però da sola non basta. Manca un’idea comune di famiglia nuova. Ma quando in una società mancano le idee condivise, ogni cosa vacilla, l’equilibrio viene meno, rendendo tutto più fragile, persino la famiglia, che per sua natura dovrebbe essere stabile e forte.

Ricollegandosi al libro, parla delle donne. Ognuna a suo modo, diversificate dall’appartenenza a diverse generazioni. C’è la regale maturità della nonna che ama divertirsi giocando all’amore con quella quasi totale consapevolezza di se stessa, che solo gli anni di vita collezionati possono dare.

Poi c’è la figlia, la mamma cinica, tutta d’un pezzo che non lascia sfuggire nulla al suo controllo. Una donna disposta ad addossarsi tutta la pesantezza che può comportare la responsabilità.

Responsabilità che la terza protagonista, la più giovane, non vuole assolutamente assumersi. Lei vuole vivere il momento presente, non le importa del futuro. La sua esistenza è votata alla leggerezza e questo, indubbiamente, la pone in una posizione contrastante nei confronti della madre. Ma nonostante le discordanze non si deve perdere il senso dell’unione. In una famiglia, come in una piccola comunità o anche in una grande società, condividere idee e progetti comuni, mantiene uniti. Ovviamente senza imposizioni di alcun tipo. Conclude ricordando che ci sono cose che non si possono assolutamente imporre: l’amore, che semplicemente c’è o non c’è; e la fede, la quale rappresenta un atto di volontario e puro amore. L’autorità ci mette in posizioni di inferiorità, ma nessuno è inferiore rispetto a qualcun altro. Autorità che è però ben diversa dall’autorevolezza, che è qualcosa che scegliamo di dare a qualcuno perché lo riteniamo giusto.

Finito l’incontro avrei voluto che ricominciasse. Il fiume calmo e pacifico delle sue parole ci ha trasportati tutti nel suo mondo, e questo era evidente dal silenzio sacrale presente nella sala gremita di persone. La sensazione finale è stata quella di aver avuto una piacevole conversazione con un’amica, e non è sicuramente da tutti saper mettere il proprio uditorio totalmente a proprio agio di fronte a un messaggio così impegnativo. Ma Dacia è un’autrice straordinaria, come la sua vita, i suoi amori, i suoi viaggi. E le sue opere ci permettono di vivere a pieno questa sua straordinarietà se, oltre che a leggere con gli occhi, ci concediamo il lusso gratuito di leggere con il cuore.

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